27/05/2006
Micropolis
L'Africa è lontana
Intervista a Giulio Albanese
Giulio Albanese è venuto
a presentare il suo
ultimo libro a Bastia
Umbra giovedì 11
maggio, ospite del Circolo culturale
Primomaggio. Il libro
Soldatini di piombo, edito da
Feltrinelli, racconta una serie di
storie incentrate sul dramma dei
bambini soldato, principalmente
in Uganda e Sierra Leone.
Albanese è missionario comboniano
e giornalista, ha vissuto a
lungo in Africa e nel 1997 ha fondato
Misna (Missionari Service
News Agency), l’agenzia di stampa
internazionale delle congregazioni
missionarie cattoliche. Impegnato
da anni a fare informazione dal
Sud del mondo è al suo terzo
libro, dopo Ibrahim amico mio e Il
mondo capovolto.
“È immorale che gli adulti
vogliano fare combattere i bambini
al loro posto, non ci sono
scuse né motivi accettabili per
armare i bambini”. Con questa
frase di Desmond Tutu, Premio
Nobel per la Pace, inizia il libro,
che parte dalla tua esperienza
diretta in Africa. Ma il libro tocca
anche altre questioni, soprattutto
quella della mancanza di informazione
…
Mi viene in mente Stanley
Kramer. Viviamo davvero in un
pazzo pazzo pazzo mondo.
Qualcuno vorrebbe che rinunciassimo
al pensiero, ci costringono a
vedere i reality show, una delle
cose più aberranti di questo
mondo, fatti apposta per azzerare
il cervello delle persone. Uno
guarda i reality e poi va a votare…
Credo, invece, che sia importante
coltivare la voglia istintiva di
conoscere; l’informazione è il
primo passo verso la dimensione
della solidarietà. Viviamo in un
mondo dove le informazioni
schizzano via alla velocità della
luce, ma non sappiamo niente di
quello che succede non solo nel
sud del mondo, ma neanche a
casa nostra. Dell’Africa nulla passa
in Tv negli orari in cui la gente la
ascolta, pochissimo c’è sulla grande
stampa. Si contano sulle dita di
una mano i quotidiani che danno
spazio all’Africa con continuità e
attendibilità: “il manifesto”,
“Liberazione”, “L’avvenire”, e
anche “L’“Osservatore romano”.
I numeri del dramma dei bambini
soldato fanno paura: secondo
le stime sono 300 milioni i minori
impegnati nei conflitti in tutto
il mondo. Qual è la situazione in
Africa?
Ho girato quel continente in
lungo e in largo, da meridione a
settentrione, e di teatri di guerra
ne ho visti tanti. Ultimamente,
soprattutto nell’Africa Sub
Sahariana, si registra una diminuzione
dei conflitti e questa è una
buona notizia. L’anno scorso è
stato siglato l’accordo in Sudan,
che ha messo fine ad una delle più
lunghe guerre africane, con oltre
due milioni di morti. Ma la lista
delle guerre dimenticate è ancora
lunga: sono aperti scenari bellici
in nord Uganda, nel Darfhur, in
Somalia. Solo a Mogadiscio sono
morte nei giorni scorsi 150 persone,
nel quasi totale silenzio del
sistema mediatico. In alcuni Paesi,
come la Costa d’Avorio, la tensione
è alta, in altri il processo di
pacificazione si sta consolidando. I
Paesi dove ho toccato con mano
gli effetti di lungo periodo della
tragedia sono Sierra Leone e
Uganda. In Sierra Leone la guerra
è finita cinque anni fa, ma in
Uganda continua dalla fine degli
anni ’80. Il bilancio di vittime per
l’Uganda è alto, si parla di circa
150 mila morti in un fazzoletto di
terra: 50 mila chilometri quadrati,
le dimensioni di Piemonte e
Lombardia messe insieme. Dal
1994 nel nord dell’Uganda sono
stati sequestrati circa 25 mila
bambine e bambini da 8 a 14 anni
per farne soldati.
Che cosa hanno in comune queste
guerre?
In tutti e due i paesi ho incontrato
formazioni di ribelli in cui i minori
costituivano circa il 98% delle
reclute. In Sierra Leone erano
soprattutto all’interno di un gruppo
denominato Ruf, fronte unito
rivoluzionario. In Uganda il gruppo
che più si è alimentato di bambine
e bambini è l’Esercito di resistenza
del Signore. Le tecniche di
reclutamento sono le stesse: i
minori vengono sequestrati nei
villaggi e assistono all’uccisione di
genitori e parenti. Una volta catturati
sono sottoposti ad un
indottrinamento e drogati con
jamba, una droga locale, e cocaina.
Gli viene fatto bere latte e polvere
da sparo, per innescare meccanismi
di suggestione. Così
diventano delle feroci macchine
belliche. Nel caso dell’Esercito di
resistenza del Signore i bambini
sembrano combattere sotto l’effetto
di un’ipnosi collettiva. Ho
notato qualcosa di strano, quando
sono stato sequestrato con alcuni
miei colleghi. Quando parli con
questi ragazzini sembrano degli
automi e fanno davvero paura. Ti
rendi conto che sono imprevedibili,
potrebbero tirare fuori la loro
pistola, spesso una Beretta, e spararti.
Non immaginate quante
armi italiane finiscano da quelle
parti!
Nel libro racconti storie vere di
bambini soldato che hai conosciuto.
Che cosa ti ha colpito di
più durante questi incontri?
La prima volta che incontrai i
ribelli del Ruf, il 12 marzo del
’99, ero insieme ad un vescovo
missionario, Mons. Biguzzi, e a
un collega della Rai, Montanaro.
Le immagini qualche mese dopo
andarono in onda nella trasmissione
di Rai Tre C’era una volta, in
uno di quei documentari che una
volta andavano in onda in prima
serata e adesso sono finiti in quarta.
I ribelli uscirono fuori dall’erba
improvvisamente e ci ritrovammo
circondati in un batter d’occhio
da centinaia di bambini armati.
Ci accompagnava un generale
indiano delle Nazioni Unite, che
ci tranquillizzò e ci disse di provare
a dialogare. Vennero fuori quattro
o cinque giovanissimi capi, tra
cui uno dei leader storici del
movimento, un certo Mosquito.
Un ragazzo con i capelli alla Bob
Marley mi puntò il fucile sulla
pancia e mi chiese dei soldi. Era
ricoperto di bombe a mano, tanto
da sembrare un albero di Natale.
Gli chiesi come si chiamava, mi
rispose con un nome che nella lingua
locale significa “io ammazzo
senza spargere sangue”, gli risposi:
piacere Padre Giulio! Mi accorsi
che aveva appesa al collo una
grande croce d’oro, di quelle che
portano i Vescovi. L’aveva rubata
all’arcivescovo di Freetown Mons.
Ganda. Gli chiesi di restituirla,
ma mi rispose che non poteva: era
un amuleto che difendeva dalle
pallottole. Nel momento di salutarmi
mi disse: “Ti posso chiedere
un regalo? Potrei venire con te?
Mi piacerebbe tornare a scuola!”.
Fu per me un messaggio di speranza:
una immensa voglia di
vivere continuava ad ardere come
una fiammella in quei ragazzini
abbrutiti da adulti scellerati.
La domanda è d’obbligo: perché
sono proprio i bambini ad essere
reclutati?
La prima ragione è che sono ubbidienti,
puoi manipolarli, sottoporli
al lavaggio del cervello. La
seconda ragione è che non costano
niente, basta una manciata di riso
e si accontentano, ma la terza
ragione è che gli adulti la guerra
non la vogliono fare. La stragrande
maggioranza delle popolazioni
che abitano in quelle che noi solitamente
consideriamo di conflitto
non condividono assolutamente i
progetti politici violenti, demenziali,
dei war lords, i signori della
guerra. I conflitti etnici c’entrano
poco con queste guerre. Gli odi
tra quelle che chiamiamo tribù
sono alimentati artificialmente, in
alcuni casi totalmente inventati.
La ragione principale dei conflitti
risiede invece nelle immense risorse
minerarie. Ci sono dei Paesi,
come l’Uganda, che sono miniere
a cielo aperto. Si combatte perché
ci sono oro, diamanti, rutilio, il
materiale che serve per i nostri
telefonini. Per non parlare del niobio,
il miglior super conduttore al
mondo. Un grammo costa 17 dollari,
cioè al chilo 17 mila dollari,
più del platino. Serve anche per
assemblare i satelliti. Di giacimenti
di niobio ce ne sono due, uno
in Perù e l’altro nel Congo. I
signori della guerra fanno nascere
questi movimenti ribelli e con
l’aiuto dei mercenari si mettono
in contatto con le principali compagnie
di sfruttamento di queste
risorse. Tra questi mercenari bianchi
che reclutano i reclutatori di
bambini ci sono anche molti italiani,
ex ufficiali e sottufficiali dell’esercito.
Amelia Rossi
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