02/04/2007
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MA CHE MONDO E' QUESTO? INTERVISTE SULLE EMERGENZE DI FINE MILLENNIO
Celebrando i suoi primi quindici anni di attività, il circolo culturale primomaggio di Bastia Umbra ha raccolto attorno a un tavolo virtuale alcuni di quegli intellettuali, politici, giornalisti, uomini di chiesa, dirigenti di organizzazioni umanitarie e di intervento sociale che hanno animato con la loro presenza e la loro passione civile le iniziative del circolo. Interviste a: Vittorio Agnoletto, Fabio Alberti, Frei Betto, Mario Capanna, Giulietto Chiesa, don Luigi Ciotti, Haidi Gaggio Giuliani, Alberto Granado, Raniero La Valle, Flavio Lotti, Riccardo Petrella, padre Renato Kizito Sesana, Giuliana Sgrena, Giovanni Russo Spena, Jean Leonard Touadi, padre Alex Zanotelli.
Intervista a Giulietto Chiesa
Inizierei parlando della condizione in cui versa l'informazione in Italia, e in particolare del ruolo che in tal senso ha assunto la televisione. Nel suo ultimo libro-intervista Cronache marxziane (Roma, Fazi, 2005), lei la definisce la «Grande Fabbrica dei Sogni e di Menzogne» capace di orientare fortemente i bisogni e i gusti di chi ne è assiduo consumatore. Ma lei è dell'idea che pure per il consenso politico è determinante il controllo dei mezzi televisivi, e l'esposizione in video, oppure ritiene – come fanno oggi in molti – che una simile sovraesposizione è invece destinata ad amplificare la percezione dello scollamento tra il mondo reale e quello della politica, generando quindi stanchezza e disimpegno?
Sono convinto che la televisione (non solo l'informazione ma tutta la televisione, intrattenimento e pubblicità al primo posto) influenzi profondamente cultura, emozioni, pensieri di grandi masse. Quindi è evidente la sua eccezionale e decisiva importanza, specie sul lungo e medio periodo. In una società “debole”, cioè con un livello civile ridotto o elementare, la tv ha effetti più devastanti. In una società più strutturata democraticamente, questi effetti possono essere contrastati più o meno fortemente. Ma la tendenza generale in ultima analisi porta a un indebolimento dei livelli di cultura e di democrazia. Certo che la tv produce anche scollamento dal mondo reale, inversioni di valori, confusione, disimpegno. Ma questo non contraddice, anzi conferma, quello che vado dicendo.
Eppure si dice che il mezzo televisivo riesce a orientare solo l'opinione degli incerti – che del resto non è ininfluente, a giudicare anche dall'ultima tornata elettorale. Ma il vero potere della televisione non crede che sia misurabile, piuttosto, nella trasformazione che essa ha imposto nel codice della politica, riducendolo a puro esibizionismo, e a un insieme di slogan semplici e banali che giorno dopo giorno stabiliscono il framing del dibattito?
Tutti questi effetti si sommano. Non è solo il voto degli incerti che viene modificato, è l'intero clima sociale e intellettuale che viene degradato. Cento trasmissioni sulla famosa “mamma di Cogne” sono devastanti per lo stato intellettuale e morale di un intero paese.
E cosa dice della teoria secondo la quale è stata proprio questa semplificazione e personalizzazione della politica imposta dal mezzo televisivo a sollecitare in Italia una forte richiesta di maggioritario (con le primarie come sua evidente appendice)? Sembra plausibile, anche se poi è successo che la maggioranza governata da chi detiene il monopolio delle televisioni italiane ha invece spinto per un ritorno al proporzionale, rifiutando le primarie in casa propria. E allora che sia proprio Berlusconi il primo a diffidare dei poteri persuasivi della TV?
Le cose non sono andate così. Berlusconi ha fatto una legge che di maggioritario non ha niente. Ha sostituito un maggioritario che gli era scomodo, con un finto proporzionale più manovrabile. Le cose gli sono andate male, ma nessuno come Berlusconi sa che la tv ha potere persuasivo non solo enorme, gigantesco. Il mezzo televisivo produce personalizzazione e teatralizzazione. Le facce sostituiscono i programmi. L'oligarchia è vitalmente interessata al maggioritario, perchè le fornisce il controllo sull'opinione pubblica e riduce la battaglia politica all'interno dei ceti dominanti, fuori da ogni partecipazione popolare. Il maggioritario è una forma sottile e graduata di espropriazione della sovranità popolare da parte delle oligarchie. Le primarie sono una pura finzione oligarchica. Qualche volta possono essere utili, ma solo qualche volta, per scardinare il potere degli apparati. Di solito però sono gli apparati che gestiscono anche le primarie. In questo senso io mi sento molto “liberale”. Una testa, un voto. Ma col sistema mediatico attuale, al pensiero liberale tradizionale bisogna aggiungere qualche cosa: una testa, un voto, uguale controllo sui media.
In Cronache marxziane, nel programma dell'associazione Megachip che lei presiede, e anche all'ultimo Forum annuale della Federazione della Stampa (su “Libertà di informazione. A rischio il sistema paese?”, ottobre 2005), lei ha parlato dell'estrema urgenza di costituire tra quanti operano nell'informazione italiana un movimento capace di difendere, oltre alla professionalità e alla dignità delle persone coinvolte, il valore e la funzione stessa della democrazia. Ma, in concreto, a chi fa appello visto che ha più volte denunciato la mancanza di un vero pluralismo nei nostri quotidiani, inclusi molti di quegli organi di stampa e networks che a posizioni progressiste e liberali dichiarano di ispirarsi?
Il mio discorso è rivolto a tutti i segmenti della catena comunicativa: giornalisti, pubblicitari, esponenti dello spettacolo, attori, autori, scrittori, intellettuali, operatori, produttori, cameramen , tecnici del suono, sceneggiatori, ecc. In fondo sono loro, tutti insieme, che fanno comunicazione. Tutti devono cambiare: chi più, chi meno. Penso che, però, sia l'intera società a dover affrontare il problema della democrazia nella comunicazione. Questa battaglia non la possono fare solo gli addetti ai lavori. Non è una questione settoriale, o corporativa. È un problema vitale per tutta la società e perfino per il nostro futuro, e la nostra sopravvivenza. Per questo mi batto; perché molti non l'hanno ancora capito, sia a sinistra, sia nel mondo cattolico.
Lei è pure quello che qualche anno fa, a conclusione di un suo bell'intervento raccolto in Not in my name (a cura di L. Bimbi, Roma, Editori Riuniti, 2003, p.46), al fine di “riportare democrazia e decenza nel sistema dell'informazione e della comunicazione” invocava “una sessione straordinaria del Tribunale permanente dei popoli per mettere sul banco degli imputati i giornalisti, i giornali e la televisione”. Non crede che questa sua proposta potrebbe apparire a qualcuno come vagamente stalinista, o ‘talebana'?
Altro che stalinista! Qui sono semplicemente popperiano. Penso che per fare la televisione bisogna avere la patente. Perché l'informazione è un diritto e non può essere subordinata al mercato; perché la cultura è un patrimonio comune; perché l'educazione è un dovere. In ogni paese civile nessuno si stupisce se l'istruzione è obbligatoria. Perché? Per la stessa ragione per cui io propongo che tutta la comunicazione sia considerata come un bene pubblico, non alienabile. Cento televisioni commerciali non aggiungono un etto di pluralismo, perché saranno tutte uguali, senza cultura, senza intelligenza, sostanzialmente bugiarde. Io vedo un pluralismo amplissimo, senza limiti, ma all'interno di regole precise, che impediscano a una sola voce di prevaricare le altre. Chi deve controllare questo? La società, con opportuni strumenti di legge e di regolazione.
L'informazione e l'economia mondiale sarebbero da tempo governate, secondo lei, da un superclan, una superclasse di poteri assisa sul “ponte di comando” del pianeta. Ma lei è proprio convinto che in questo ristretto consesso che stabilisce le regole della politica mondiale si debba ancora includere il ‘Commediante' Berlusconi (come lei lo ha definito)? Se così fosse, la Commedia del Cavaliere non sarebbe dunque al suo ultimo atto, dopo la sconfitta elettorale di aprile. A che atto siamo?
Per ora siamo al terzo atto, ma la commedia sarà ancora lunga. Il problema è che il superclan sta diventando sempre di più criminale e violento.
Lei sostiene che la leadership incontrastata di questo superclan è in effetti nelle mani dell'impero statunitense, che la esercita attraverso il controllo più o meno diretto su una serie di organi e istituzioni internazionali. Ha poi usato toni particolarmente critici verso l'Organizzazione Mondiale del Commercio, affermando che “occorre una drastica svolta nell'idea stessa di commercio mondiale che ha presieduto alla creazione del WTO” (sto citando il suo intervento a Strasburgo, il 17-1-2006, durante il dibattito sulla Conferenza Ministeriale del WTO tenutasi a Hong Kong nel dicembre 2005). Eppure, lei ha anche aggiunto che “L'Organizzazione Mondiale del Commercio è strumento essenziale, ma deve essere riformata e democratizzata”. Le chiedo allora se il WTO, laddove essenziale , le sembra realmente riformabile; e quale riforma ‘democratica' le può sembrare praticabile in un organismo la cui politica è intesa a realizzare – e uso ancora, quasi alla lettera, le sue parole – “un benessere distribuito in modo sempre più diseguale”.
Recentemente il presidente del Brasile, Lula Da Silva, si è espresso, in un articolo su “International Herald Tribune”, nello stesso senso di quello che io sostengo. Il WTO deve essere trasformato alla radice, ma adesso non ò più giusto chiederne l'abolizione. Perché? Perché è diventato quello che prima non era: l'arena di una battaglia politica estremamente potente, in cui i più poveri riescono ad avere influenza. Non quanto ne occorre e cui hanno diritto, ma una certa influenza. Eliminare il WTO – cosa del resto assai improbabile – significherebbe lasciare i più deboli in balia dei rapporti bilaterali con i più forti. Cioè condannarli alla sconfitta. Si andrebbe indietro, non in avanti. A Hong Kong, inoltre, è apparso chiarissimo che i fronti stanno mutando e le coalizioni si differenziano per ricomporsi ad altri livelli. Questi fatti stanno trasformando l'arena mondiale. Il problema è dunque quello di stabilire regole che impediscano ai più forti di dettare le leggi, com'era in passato. Credo sia possibile, ma non sarà fatto se le forze progressiste del mondo non costruiranno fronti coesi con obiettivi precisi.
Lo squilibrio economico nel pianeta, è noto, genera conflitti e guerre. Magari pure guerre “chirurgiche”, o addirittura “umanitarie” – visto che, come ha scritto Gino Strada, “quando si decide di bombardare, di ammazzare, conviene garantire che dopo arriveranno gli aiuti […] un costo aggiuntivo che vale la spesa: è pubblicità, è comunicazione” (Buskashì, Feltrinelli, 2002). Ma come deve essere la pace che si oppone a queste nuove guerre? Il superclan di cui sopra si lascerà convincere a deporre pacificamente le sue armi sofisticate?
La pace, se ci sarà, sarà nella forma di una distribuzione ragionevole delle risorse disponibili. A questo dobbiamo prepararci tutti. Il movimento pacifista deve passare da una fase in cui si lamenta delle guerre che ci sono, a quella in cui individua con chiarezza dove e perché se ne stanno preparando altre. Bisogna giocare d'anticipo. Lo so che non è facile, ma penso che sia indispensabile. Per fare questo il movimento deve avere una guida: autorevole e costante. Sappiamo chi sono le persone che devono costituire questa guida. Bisogna che si convincano a farlo.
Forse si dovrà inventare un ente super partes, credibile e pienamente legittimato, a cui ogni Stato avrà ceduto parte della propria sovranità. Potrà diventare così l'ONU, anch'esso riformato e democratizzato come lei auspica per il WTO, oppure si dovrà creare qualcosa di veramente nuovo?
Credo che dovremo inventare anche qualche cosa di diverso. Una nuova architettura mondiale dovrà tenere conto che ci sono ormai sfide che, se non si approntano strumenti per gestirle, scoppieranno e ci travolgeranno. Acqua, energia, ambiente, spostamenti di grandi masse di uomini. Penso a una serie di agenzie sovranazionali, cui si dovrebbe delegare la sovranità necessaria, e che dovranno avere poteri di intervento e di sanzione. Il modello dovrebbe essere quello del “chi ci sta ci sta”, senza la pretesa di ottenere subito l'unanimità. L'esempio è quello del tribunale penale internazionale. Insomma, bisogna gettare sul tavolo proposte innovative capaci di affrontare l'emergenza.
E l'Unione Europea, che in realtà ancora Unione non è, potrà mai farsi promotrice e garante di una simile pace? Certo, dovrebbe prima offrire un modello utile di convivenza civile e democratica tra popoli, di integrazione bilanciata di interessi nazionali che, pur nel disaccordo, si mantengono fedeli a un patto di solidarietà.
L'Europa è in crisi per molti motivi. Il più importante dei quali è che essa è dominata dalle idee “americane” di democrazia e di sviluppo. Che sono idee imperiali. È un dramma. Perché, al contrario, l'Europa potrebbe essere il protagonista assoluto, l'unico pensabile, per una drastica modifica della rotta mondiale. Proprio perché è disarmata, ma non impotente, l'Europa potrebbe diventare un punto di riferimento per la costruzione della nuova architettura mondiale. Mi chiedo se questa Italia sia capace di lavorare per cambiare gli equilibri europei in senso positivo.
Del resto, i fatti recenti hanno confermato che imporre la pace e la democrazia con le armi non paga. Anzi, a guardare la recente proliferazione di governi anti-americani nel continente sudamericano, l'affievolimento delle simpatie verso gli Stati Uniti in potenze un tempo amiche come l'Egitto e l'Arabia Saudita, o come da Paesi come Siria e Iran provengono minacce più forti di instabilità in Oriente, viene proprio da pensare che la crociata di Bush abbia conquistato molte più inimicizie che alleanze.
Io non credo che la minaccia venga dalla Siria o dall'Iran. La vera minaccia, per tutti, è costituita da una Amministrazione Americana dominata da furori di guerra e di dominio imperiale. Gli Stati Uniti sono alla vigilia di una tremenda crisi, che sarà finanziaria, politica, sociale al tempo stesso. E si preparano a fronteggiarla esportando la guerra. Questo li ha già isolati e molto, ma attenzione, perché sono al potere coloro che hanno ideato l'11 settembre. E che si apprestano a proseguire su quella strada. Non possono vincere, ma possono trascinarci nel baratro che stanno scavando.
E, infine, quando comincerà il grande confronto-scontro tra Stati Uniti e Cina, da lei più volte preconizzato? Sarà solo un conflitto tra mercati, tra modelli economici, tra sistemi di garanzie sociali, oppure il bisogno per entrambi crescente di materie prime e di fonti energetiche genererà anche dei conflitti armati?
Il confronto con la Cina è già cominciato. Ogni mese che passa appare evidente che la Cina non è sottomettibile e che sta esercitando un ruolo autonomo sempre più rilevante. I margini per un controllo dello scontro ci sono ancora, ma si riducono direi con il trascorrere dei minuti. Gli Stati Uniti si stanno armando a tutta velocità, per arrivare al momento della resa dei conti, con una superiorità militare tale da impedire ogni risposta diversa dalla resa. Purtroppo per loro, la Cina non potrà arrendersi. Non potrebbe nemmeno se avesse alla sua testa un leader traditore come fu Boris Eltsin. Temo che vedremo crescere questa crisi nel corso dei prossimi dieci anni. Oltre non riesco a vedere.
Roberto De Romanis - Edizione: Manifestolibri
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