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dicono di noi
13/01/2007
www.gruppoabele.org

Ma che mondo è questo? Interviste sulle emergenze di inizio millennio
Gli scritti di Luigi Ciotti

Il circolo culturale "Primomaggio", per i suoi primi quindici anni di attività, ha raccolto intorno ad un tavolo virtuale alcuni intellettuali, politici, giornalisti, uomini di Chiesa, dirigenti di organizzazioni umanitarie e di intervento sociale che hanno animato con la loro presenza e la loro passione civile le iniziative del circolo.

Manifesto Libri

2006

Ma che mondo è questo?
Interviste sulle emergenze di inizio millenio

a cura di Roberto de Romanis


La terra nel cielo e il cielo nella terra

Intervista a don Luigi Ciotti



Da circa quarant’anni lei è impegnato in tutta una serie di realtà cosiddette “di strada”, quelle segnate dalle severe problematiche connesse all’emarginazione sociale, al disagio giovanile, alla dipendenza da sostanze, alla sieropositività, all’AIDS, allo sfruttamento minorile, alla delinquenza, alla criminalità mafiosa, alla mancanza di fissa dimora, alla permanenza negli istituti di pena, ecc. Un’attività pastorale certamente molto dura e difficile, la sua, che – come è ben raccontato in un volume recente: Gruppo Abele – Quarant’anni. Il viaggio continua, Torino, EGA, 2005 – la porta a confrontarsi ogni giorno con tutti quei comportamenti considerati tendenzialmente come ‘devianti’ e, in quanto tali, percepiti come minacciosi per la nostra sicurezza. Comincerei allora proprio da questo nodo che lega devianza e sicurezza, per chiederle se anche lei ha avvertito in questi ultimi anni un cambiamento nei fenomeni che producono marginalità sociale; se anche lei, in particolare, ha colto un effettivo aumento delle persone o dei comportamenti devianti, oppure se a lei sembra che questo rilievo sia piuttosto il frutto delle nostre paure e delle speculazioni politiche che qualcuno ne fa; se, insomma, oggi che “la società è più ingiusta” (come lei spesso ripete), risulta anche più facile deviare dalla retta via.

L’impressione è che la società sia davvero diventata più ingiusta. Si è diffusa in questi anni un’inquietante idea di progresso e di modernità che traduce tutto in termini economici, e considera le politiche sociali una zavorra al raggiungimento di determinati obbiettivi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: precariato dei diritti, servizi ridotti o cancellati, quando non trasformati in prestazioni per pochi. A farne le spese è il tessuto sociale, disgregato dalla perdita di fiducia, dall’angoscia e dalla frustrazione di tanta gente impoverita, privata di opportunità, inchiodata all’incertezza e a dinamiche di sfruttamento. Non deve sorprendere allora che crescano l’emarginazione e i comportamenti devianti. Ma attenzione: quando parliamo di sicurezza dovremmo riferirci proprio a politiche sociali capaci di offrire servizi e opportunità, rispettose dei diritti e della dignità di ciascuno.

Si, però si parla sempre del bisogno di città più sicurenel senso di città con maggiori controlli, e su questo si impostano le campagne elettoral. E' tutto solo frutto delel nostre paure, e delle speculazioni politiche che qualcuno ne fa?

Non abbiamo bisogno di città sicure ma di città vivibili. E il grado di vivibilità di una città lo si misura dal grado e dalla qualità delle relazioni sociali, dal grado e dalla qualità della partecipazione. Dall’attitudine dei suoi cittadini di guardarsi attorno, con un raggio d’interesse e di conoscenza che non si limita a quello che li tocca in prima persona o a quello che accade nelle loro case. La sicurezza la si costruisce tutti insieme – cittadini, politici, amministratori – uscendo dai ghetti mentali e culturali, maturando quella corresponsabilità che ci accomuna in quanto individui aperti alle relazioni, definiti nella nostra identità dal rapporto con gli altri. Le parole “comunità” e “comune”, del resto, derivano da un termine latino – “munus” – che significa al tempo stesso “dono” e “dovere”. E’ un’ambivalenza feconda, che riflette la bellezza di questo legame che vincola ma al tempo stesso ci libera e ci arricchisce, consegnandoci il dono della nostra più profonda umanità.

Di fronte ai più pericolosi di questi comportamenti “socialmente non accettabili”, le risposte che vengono date sono il carcere e la comunità di accoglienza – la reclusione e/o l’intervento mirante a una reintegrazione sociale. E anche sul tema dell’accoglienza lei ha lavorato molto, fondando e animando il Gruppo Abele, costituendo nel 1982 il Coordinamento Nazionale delle comunità di accoglienza; ma operando, nello stesso tempo, anche in istituti di pena minorili. Posso chiederle, allora, essendo lei un sacerdote e uno strenuo difensore del valore della legalità, qual è la sua idea di un giusto rapporto tra rigore della pena e perdono, tra sicurezza sociale e solidarietà?

Pur nella loro diversità, credo che responsabilità individuale e responsabilità sociale siano dimensioni collegate, da leggere l’una alla luce dell’altra. E’ vero che la responsabilità penale riguarda sempre il singolo individuo, ma è anche vero che una persona può commettere un reato perché ha vissuto in contesti sociali svantaggiati, privi di quei riferimenti, opportunità, garanzie che sono l’antidoto più efficace contro l’emarginazione e l’illegalità. Un’attenta lettura del contesto sociale è poi tanto più doverosa quando parliamo di giustizia minorile, perché ad essere giudicati in questo caso sono giovani segnati molte volte dalla povertà, dalla fragilità, dall’emarginazione. Quest’attenzione riveste da sempre per noi una grande importanza. La storia del Gruppo Abele inizia proprio dal Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino, alla fine degli anni sessanta, quando grazie al sostegno di funzionari e magistrati lungimiranti potemmo entrare nella struttura e condividere la vita dei ragazzi reclusi, costruendo un ponte tra carcere e società, una via che unisse il fuori al dentro e viceversa.

Però è difficile che una società veramente civile possa affidare a un carcere minoril, o a istituti come quelli che abbiamo in Italia, la sua speranza di riscatto per un giovane "che ha sbagliato"

In realtà dalla fine degli anni Sessanta, molte cose sono cambiate, ma sono ancora tanti, troppi, i ritardi. Penso a una riforma della giustizia minorile più volte annunciata e mai attuata, capace di dare alla materia giuridica l’organicità e la specificità necessarie, penso soprattutto all’insufficienza di strumenti in grado di garantire ai minori stranieri, attualmente i più numerosi, percorsi di crescita, dignità, integrazione. E lo stesso vale per gli istituti di pena per adulti, dove il dettato costituzionale – quell’articolo 27 che parla di pene che «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» – non trova quasi mai attuazione. Nelle carceri italiane, piene soprattutto di immigrati e tossicodipendenti, il tasso di recidiva arriva all’80%: una percentuale altissima, che si abbassa però fino al 15% nelle aree dove agli ex-detenuti viene offerto un lavoro. E’ per questo che misure come l’indulto, se non portano a cambiamenti strutturali fuori e dentro il carcere, rischiano di ridursi a palliativi. E necessario creare percorsi di reinserimento ma anche incrementare le pene alternative, oggi ampiamente sotto utilizzate, e non solo per ridurre il periodo di carcerazione ma anche, dove è possibile, per eliminarlo del tutto. A parole si continua a dire che il carcere deve essere un’extrema ratio: nei fatti non è così.

Parlando di tolleranza, alcuni sostengono che gli errori non sono solo da parte della destra meno liberale, ma anche – e di segno opposto – da parte della sinistra. In un suo intervento di qualche mese fa Peter Schneider scriveva che “l’errore della sinistra, con il suo entusiasmo per la società multiculturale, è stato non distinguere tra la molteplicità delle culture e l’universalità dei diritti umani e del cittadino” (“Repubblica”, agosto 2005). Anche lei è di questa opinione? Esistono cioè diritti che sono al di sopra delle culture, e quindi anche al di sopra delle religioni tutte? Ma allora come coniugare l’esistenza, e l’imposizione, di questi diritti universali e inalienabili con la ricerca di quella “convivialità delle differenze” lanciata da Tonino Bello, e oggi ispirazione della Chiesa più aperta e conciliante, si rivela solo una bellissima utopia.

Credo che tra molteplicità delle culture e universalità dei diritti non ci sia incompatibilità se, parlando di diritti, ci riferiamo a quelli di ogni persona di essere libera e di essere riconosciuta nella sua dignità. La convivialità delle differenze di cui parlava don Tonino Bello è davvero una “bellissima utopia”, ma un’utopia calata nel tempo e nello spazio, in quel cuore pulsante della storia delle persone che è la strada. E’ la strada che ci fa incontrare i volti, le storie e i bisogni di tanti amici, e che ci insegna ad accogliere senza selezionare i compagni di viaggio, imparando po’ da tutti, anche da chi ha percorsi e riferimenti molto lontani dai nostri. Nel suo piccolo il Gruppo Abele ha sempre cercato di promuovere e di essere fedele a questa pluralità di volti ed esperienze, cercando un punto di incontro tra la fede e la laicità, tra la dimensione religiosa e quella politica, tra l’accoglienza e la cultura. Il nome che abbiamo voluto dare alla nostra sede, “Fabbrica delle e”, vuole esprimere proprio questa tensione alla relazione e alla conciliazione, a un lavorare e a un camminare insieme. Come ci ha insegnato proprio don Tonino Bello, che su questa strada è stato un profeta e di cui mi piace citare una frase che esprime in modo toccante l’impegno di chi cerca Dio nelle storia delle persone, nei volti dei tanti poveri cristi che affollano le nostre città o arrivano ai nostri confini in cerca di una vita libera e dignitosa. “Non mi interessa sapere chi sia Dio – diceva don Tonino – mi basta sapere da che parte sta”.

E invece, per apparente paradosso,sembra rafforzarsi il potere delle varie religioni e ampliarsi il loro ambito di intervento. Ritiene che questo sia un processo che sta a segnalare, a livello globale, una latitanza della politica, la sua incapacità di mediazione, la sua inabilità di decisione? Oppure, e più gravemente, è un segno, questo, della fragilità delle nostre democrazie?

Un grande Papa, Paolo VI, definiva la politica come “il più alto grado di carità”. E’ di questa politica che sentiamo, a più livelli, la mancanza, e c’è davvero da lavorare perché questo genere di politica riacquisti al più presto il suo primato scalzando un suo surrogato dalla faccia inquietanti, un potere sordo al bene comune, asservito a logiche di mercato, reponsabile del tragico aumento delle ingiustizie e delle povertà.Il Programma per lo Sviluppo dell’ONU ci ha fornito, di recente, dati impressionanti: il 18% della popolazione mondiale (800 milioni di persone) dispone dell’83% del reddito mondiale; i Paesi più ricchi consumano il 75% dell’energia complessiva; le dieci persone più ricche possiedono patrimoni per 133 miliardi di dollari, l’equivalente di una volta e mezzo il reddito nazionale dei 48 paesi meno fortunati. Sproporzioni simili sono la prova più evidente di un’incapacità – che ancora una volta è mancanza di volontà politica – di tutelare e promuovere il bene comune, e in un contesto simile anche “democrazia” rischia di trasformarsi in una parola priva di contenuto e di verità, perché “democrazia” non è nulla senza partecipazione, impegno, responsabilità. Senza quel mettersi in gioco e al servizio degli altri che alimenta di linfa etica l’agire politico trasformandolo in quell’ “alto grado di carità” di cui parlava Paolo VI.

Tornando ai problemi relativi ai femomeni migratori, lei ha pesantemente criticato la legge Bossi-Fini. Crede che si possa combattere efficacemente l’immigrazione clandestina senza fornirsi di una legislazione che limiti l’ingresso in Italia?

L’analisi dei fenomeni migratori deve partire dalle cause, alle condizioni disumane in cui vivono troppe persone. Se non fosse così i flussi migratori non avrebbero assunto le dimensioni attuali, perché nessuno, se non costretto, abbandona la sua casa, i suoi affetti, le sue radici. Lo fa solo quando ha come come alternativa la miseria o la morte, e noi viviamo in un mondo dove la miseria e la morte sono una realtà per tante, troppe persone. La FAO ci dice che ogni anno sono ridotte alla fame 852 milioni di persone, il doppio della popolazione dell’Unione Europea. Nello stesso periodo, muoiono per denutrizione 6 milioni di bambini. E’ un genocidio silenzioso, provocato da precise scelte politiche e precise strategie economiche, perché sempre la FAO ci avverte che l’agricoltura mondiale, suddivisa equamente nei suoi frutti, potrebbe dare nutrimento a 12 miliardi di persone, il doppio dell’attuale popolazione mondiale. Quanto alla Bossi-Fini penso sia stata una pagina nera della nostra recente storia politica, una legge che ha incentivato la clandestinità e il lavoro nero, consegnando tanti poveri cristi nelle mani della criminalità organizzata. Una legge con un impianto irrealistico, demagogico e anche ipocrita, come quando permette assunzioni solo a condizione che il lavoratore si trovi nel paese d’origine. Dove si è mai visto un datore di lavoro disposto ad assumere persone che non ha mai visto in faccia? Non ho soluzioni in tasca, ma credo che il fenomeno migratorio richieda risposte civili e umane per persone che arrivano cariche di sofferenze, fragilità, speranze. Percorsi che facilitino la regolarizzazione e l’integrazione, che è anche l’antidoto più efficace all’illegalità, come ci dicono le statistiche. E anche di una cooperazione vera con i Paesi di provenienza, per consentire a chi vive laggiù di vivere dignitosamente, senza scappare per via della fame e delle guerre.

I CPT continuano peò a rimanere in funzione. Anche per chi richiede asilo politico

I CPT non rispondono certo a un’ottica d’accoglienza e integrazione. Capisco la necessità di identificare le persone, ma i CPT sono luoghi di negazione della dignità e del diritti. Senza dimenticare le tante persone che nemmeno ci arrivano, ai CPT, perché annegano in quel grande cimitero che è diventato il Mediterraneo. Ero a Gela, dopo il naufragio dello scorso novembre. Non le dimenticherò mai, quelle bare disposte lunghe la spiaggia. La vita delle persone viene prima delle leggi perché ne è il fondamento. Per fortuna qualcosa pare si stia muovendo. Penso alla Commissione che sta ispezionando proprio i CPT in vista di un loro superamento, o ai permessi di soggiorno temporanei per chi denuncia il caporalato o altre forme di sfruttamento del lavoro nero. Ma penso anche alla riforma del diritto d’asilo, col permesso di restare nel territorio per chi vede bocciata in prima istanza la sua richiesta d’asilo, e il riconoscimento dello status di rifugiato anche per chi proviene da un Paese non compreso nell’elenco di quelli considerati “a rischio”.

Immigrazione clandestina, tratta degli esseri umani, narcotraffico e prostituzione sono fenomeni ormai tutti legati agli stessi interessi e sempre più gestiti da organizzazioni mafiose. Dalla costituzione di “Libera” – il network di “Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” da lei fondato nel 1995 e che oggi consorzia circa 1300 associazioni nazionali e gruppi locali impegnati in Italia contro la mafia – è in qualche modo cambiato il fenomeno mafioso?

Tutti ripetono che in Italia la mafia non uccide più: negli ultimi dieci anni, abbiamo avuto circa 2500 morti di mafia e 155 vittime innocenti. Non è una guerra questa, una guerra che si consuma in gran parte sotto silenzio? Se c’è una parola che abolirei dal vocabolario, quando si parla di mafie, è la parola emergenza. In Italia si va avanti a emergenze: l’emergenza Locri, l’emergenza Gela, l’emergenza Scampia. Ci si occupa di mafie solo quando c’è l’omicidio o la cattura eccellente, come se la mafia fosse una questione soltanto criminale, di pertinenza di magistrati e forze dell’ordine. E’ invece, prima di tutto, una questione sociale e politica che va affrontata con continuità, un fenomeno profondamente intrecciato con le dinamiche dell’economia, con il governo del territorio e le politiche dello sviluppo. Se le mafie hanno meno bisogno di sparare, se le loro armi e le loro bombe colpiscono meno di un tempo magistrati, forze dell’ordine, uomini politici, non è perché sono diventate più inoffensive, ma perché hanno imparato a muoversi al riparo di circuiti insopettabili. Stringendo alleanze e complicità, controllando direttamente o indirettamente le amministrazioni, inserendo uomini o prestanome nei gangli del circuito finanzioario o persino, come abbiamo visto di recente, all’interno delle associazioni antimafia. Una capillare operazione di mimetismo che riguarda l’Italia ma anche l’estero, perché le mafie sono ormai un fenomeno transnazionale capace di trarre profitto dai nuovi mercati del capitalismo selvaggio ma anche dalle guerre, dalle miserie, dalla mancanza di diritti che affliggono gran parte dell’umanità. Vittime di mafia sono perciò anche quelle dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani. Vittime di mafia sono i morti per droga.

Quindi lei dice che non hanno avuto alcun risultato le politiche proibizioniste che sono state emanate dal nostro precedente Parlamento, prima riguardo all'immigrazione e poi al consumo di droga?

No, perchè quando una legge enfatizza l'elemento penale fino ad annullare quello sociale, come le nostre leggi sulla droga e sull'immigrazione, finisce per alimentare quelle sacche di marginalità, sofferenza, mancanza di diritti che rappresentano da sempre terreno di conquista per le mafie.

Tra le occasioni di confronto tra le varie realtà dell’associazionismo solidale organizzato dal Gruppo Abele, le due edizioni di “Strada Facendo” (Torino 2002 e Perugia 2005) sono state forse le più seguite e risonanti. Vi si è ribadito il valore e il protagonismo di quella società civile che si batte per porre al centro del nostro ordinamento i diritti delle persone, la realizzazione del bene comune, la pace; rivendicando, con ciò, quell’autonomia politica del sociale che tenta ogni giorno nuove e più diffuse forme di partecipazione politica. Lei ha molta fiducia in questo tipo di iniziativa civica, ma crede effettivamente che tali processi partecipativi abbiano lacapacità di costruire nuove frontiere per la democrazia di fondare quel nuovo soggetto costituzionale che il principio di sussidiarietà vorrebbe in realtà riconoscere?

Credo che a reggere il cambiamento sia il “noi”, non l’“io”. “Noi” significa però corresponsabilità e partecipazione, diritti e doveri. Significa essere cittadini nel senso pieno del termine, cittadini che non stanno alla finestra, che non delegano alla politica ma nemmeno pretendono di sostituirsi ad essa. Credo sia questo genere di cittadinanza e d’impegno a fondare una società civile, anche se è tutt’altro che facile. Spesso la politica non aiuta il cittadino, si dimostra sorda alle sue proposte e denunce, refrattaria al cambiamento e arroccata nei suoi privilegi. Altre volte è la società civile a rendere arduo il suo stesso cammino. Penso agli individualismi e ai particolarismi, alla tendenza a chiudersi nei propri steccati mentali e culturali, facendo i navigatori solitari. L’impegno sociale richiede coerenza e continuità, coraggio e rifiuto di scorciatoie, collaborazione e confronto, umiltà e assenza di protagonismo. Credo sia questa la via del “noi”, la via che costruisce speranza e cambiamento. E la via che abbiamo scelto di seguire con Libera, fino alla creazione di una rete trasversale capace di includere 1300 associazioni, e credo anche i due appuntamenti di “Strada Facendo”, con il loro fecondo intreccio di contributi, con l’impegno comune di operatori, politici, amministratori, ricercatori, siano stati una dimostrazione del fatto che quando si lavora insieme con impegno, tenacia, disponibilità, si ottengono risultati importanti.

Il mondo dell’associazionismo è abitato da moltissimi giovani, e se c’è un riferimento costante nei suoi interventi pubblici degli ultimi anni è proprio quello alla precarietà della condizione giovanile attuale (in termini di occupazione, di diritti sociali, di progettazione di un futuro). Ma come accade, allora, che la speranza di una società migliore, ossia la fiducia in un progresso di emancipazione dall’ingiustizia, riesce ad attecchire in chi è costretto a vivere sempre più alla giornata?

Mi arrabbio molto quando sento dire che i giovani sono il nostro futuro perché credo invece che i giovani siano il nostro presente e la società in tutte le sue espressioni debba investire su di loro oggi, non domani. Ma per investire sui giovani è necessario sostenerli, accompagnarli, aiutarli a crescere. Se c’è una parola sospetta, oggi, è la parola educazione. Se ne parla molto, da più parti si auspica il recupero di dimensioni pedagogiche, tutti invocano la necessità di un maggior impegno formativo, ma il problema è capire cosa intendiamo per educare. Il modello che emerge è unilaterale: da un lato l’educatore, con il suo sapere; dall’altro il ragazzo – il giovane – da riempire come un contenitore di nozioni, modelli, orientamenti. Credo invece che i ragazzi vadano accompagnati, valorizzati, aiutati a trovare la loro identità, non assimilati alla nostra. E penso che per realizzare questa modalità dell’educare – certo più faticosa, basata sul dialogo e l’ascolto invece che sul precetto o la proibizione – sia necessario innnanzitutto educarci, tutti quanti. L’esperienza ci insegna che i giovani non cercano adulti perfetti, ma persone autentiche, appassionate, coerenti. Persone che non dicano loro cosa fare, ma facciano assieme a loro. E che, quando le trovano, la loro carica vitale, la loro naturale proiezione al futuro, riesce a manifestarsi in progetti di grande valore, progetti che permettono di superare la precarietà e le difficoltà del presente attraverso sane forme di partecipazione e di protagonismo. Ma perché questo si realizzi è necessario, lo ripeto, che gli adulti si mettano in gioco, che sentano di nuovo in modo forte e appassionato una responsabilità educativa.

A giudicare dalla massiccia presenza di giovani cattolici nel mondo dell'associazionismo e nella realtà variegata del Movimento – qualcuno ha notato che certamente più della metà di quanti a Genova contestavano il vertice del G8 nel luglio 2001 erano cattolici (P. Gheddo-R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002) – sembrerebbe che tale prospettiva di cambiamento scaturisce più che altro dalla fede religiosa. Ma è proprio così, secondo lei? Pensa, che se lo fosse, quel senso di speranza non potrebbe non tingersi di venature messianiche?

Non parlerei di venature messianiche. Parlerei piuttosto, per quei giovani, di una fede religiosa che non ha timore di misurarsi con la strada, con la storia delle persone, cercando di saldare una dimensione più intima di ricerca con una responsabilità anche politica di denuncia, di approfondimento, d’impegno. Di una fede maturata nella convinzione che non è sufficiente essere buoni e solidali se bontà e solidarietà non costruiscono concreti percorsi di giustizia. Di una fede, infine, che non vede terra e cielo come dimensione separate o peggio contrapposte: che cerca la terra nel cielo e il cielo nella terra.