presentazione libro
Copertina di Fuoco amico 15 giugno 2006

Perugia

Sala dei Notari

"Fuoco amico"

intervengono
Giuliana Sgrena autrice del libro, giornalista

coordina Primo Tenca

introduce:
Luigino Ciotti, presidente circolo primomaggio
trascrizione della serata

FUOCO AMICO

Primo Tenca: Buonasera a tutti, iniziamo questa assemblea che si è trasformata - penso siate tutti d’accordo - in una manifestazione pacifista, più che in una presentazione di un libro. Io ringrazio Giuliana Sgrena di essere venuta qui a Perugia per presentare il suo libro "Fuoco Amico". E ringrazio Luigino Ciotti, animatore del circolo "Primomaggio" di Bastia, che molti di voi conoscono per l’attività che svolge da anni: lo ringrazio perché ha voluto estendere questa attività alla città di Perugia e con successo. Ringrazio il Comune per aver patrocinato questa iniziativa e averci dato questa bellissima sala e vorrei ringraziare tutti voi di essere venuti questa sera. Io ho solo l’obbligo di coordinare questa riunione che sarà così impostata: farà una breve introduzione Luigino Ciotti, dopodichè Giuliana Sgrena parlerà della sua terribile esperienza e soprattutto della situazione dell’Iraq di oggi, che non è affatto pacificato come vogliono farci credere. Cercheremo poi, se è possibile, anche di parlare delle prospettive future. Quindi io non mi dilungo oltre in questa brevissima introduzione, do la parola a Luigino Ciotti e poi dopo l’intervento di Giuliana ci sarà il dibattito per cui se qualcuno vuole intervenire sarà libero di farlo.

Luigino Ciotti: Anche a me tocca ringraziare Giuliana per aver accettato l’invito a venire qua. Ringrazio il Comune di Perugia e l’assessore Boccali per averci concesso l’uso di questa splendida sala, i tanti amici e compagni che hanno lavorato in silenzio per la riuscita di questa serata. Credo che il risultato parli da solo. Detto questo, mi pare quanto mai opportuna questa iniziativa perché parlare del libro di Giuliana si inserisce in una vicenda quanto mai attuale, quella della questione Iraq, nel suo complesso, nella questione pace-guerra, etc. Tra l’altro le ultime notizie sono il rinvio a giudizio da parte della procura di Roma di Mario Lozano, il mitragliere americano, per omicidio volontario e per duplice tentato omicidio, come ha scritto il pubblico ministero Liotta. Ci sono le dichiarazioni di D’Alema di ieri che, rispetto al caso Calipari, ha detto:" Ci saremmo aspettati la collaborazione americana con la giustizia italiana nella ricerca della verità e nell’accertamento delle responsabilità." E questo non sta avvenendo. C’è stato qualche giorno fa la morte del militare italiano, Alessandro Tipiri, e ad oggi ci sono 31 militari e 7 civili italiani uccisi. Questo rende quanto mai questa questione attuale. Mi sembra anche che le parole del padre di Alessandro siano significative - " Prima se ne vanno e meglio è. " - parlando delle truppe italiane. E poi c’è oggi, nel nostro paese, la discussione sul ritiro delle truppe dall’Iraq. Molti di quelli che sono qui si sono mobilitati in questi anni per evitate la guerra in Iraq e per evitare le guerre in generale: abbiamo manifestato e ci siamo mobilitati per la liberazione di Giuliana e anche di Florence Aubenas. E non vorremmo veramente che oggi, anche se è cambiato il governo, i tempi per il rientro delle truppe italiane siano tempi lunghi, sostanzialmente come quelli previsti dal centro-destra: perché ciò vorrebbe dire che dal governo di centro destra poco è cambiato se non il colore. Questo movimento pacifista ha lottato, ha manifestato, è sceso in piazza, per il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq. E quindi il tipo di discussione che c’è anche in Italia ci piace poco. Si parla di un piano concordato: ma concordato con chi? Con chi ha fatto la guerra, con chi è un governo fantoccio, con le truppe di occupazione? E rispetto a quanto D’Alema ha dichiarato, che ritiriamo le truppe dall’Iraq ma manderemo altri militari in Afghanistan, noi diciamo: siamo contro tutte le guerre, compresa quella dell’Afghanistan, e non ci siamo battuti semplicemente per spostare le truppe dall’Iraq e mandarle in Afghanistan.

Non ci piace neanche la vicenda giudiziaria: dicevo del rinvio a giudizio ma ci sono illustri giuristi, - penso a Sabino Cassese - che dicono da molto tempo che il delitto di Nicola Calipari può essere considerato un delitto politico e quindi come tale giudicato in base ad un articolo diverso - l’articolo 10 e non l’articolo 8 - per il quale c’è stato oggi il rinvio a giudizio di Mario Lozano; il quale è stato nascosto dagli Americani e che, anche se ci fosse delitto politico, non verrebbe mai in Italia e non si sottoporrebbe a processo. Questo è lo scenario che abbiamo davanti. Oltretutto abbiamo visto anche ieri il video del marine americano che, in stile country, cantava canzoni inaccettabili. Abbiamo visto in queste ultime settimane dei video con militari americani che assassinavano dei civili, compresi i bambini, di alcune famiglie. Abbiamo visto il vide choc di Rai News sulle uccisioni al fosforo bianco a Fallujah, nell’aprile del 2003. Peraltro questa era una delle questioni su cui indagava Giuliana e che dunque rende ancora più dubbioso i motivi del rapimento.

Ci sono stati circa 80 giornalisti uccisi (Giuliana riporta, quando ha scritto il libro, che erano circa 67). Nella guerra del Vietnam ci furono 63 giornalisti uccisi in 20 anni di guerra, in Iraq sono già di più. Ciò è emblematico, perché sappiamo come sia difficile fare informazione in questo paese e come questa difenda interessi specifici. L’ informazione dovrebbe essere fatta in modo diverso e dovrebbe servire a sconfiggere la logica della guerra. Invece penso che l’informazione che abbiamo avuto in questi ultimi anni, abbia alimentato la guerra (tranne alcuni giornalisti come Giuliana, una che non era "embedded", dietro ai carro armati delle truppe di occupazione a prendere le notizie dai militari, ma che le cercano e le vanno a scavare magari a Fallujah, dove ci sono 700 persone che sono state messe in una tomba e migliaia a cui non è neanche stata data questa opportunità). È emblematico, quelle immagini che si possono vedere anche sui siti internet, fanno inorridire.

Riguardo alla vicenda di Nicola Calipari, è una morte che ci ha procurato un grande dolore. Era un uomo dello stato, non sempre in sintonia nel suo ruolo con l’attività politica di molti di noi; ma un uomo sicuramente dotato di una grande professionalità, di una grande sensibilità ed di una grande umanità. Ed è morto per tentare di salvare Giuliana e questo noi a Nicola Calipari lo dobbiamo. Quindi c’è la necessità di capire quale è la verità sulla morte di Nicola Calipari perché non tutto è chiaro. Noi chiediamo verità e giustizia, come verità e giustizia chiediamo per un nostro morto, Carlo Giuliani, di cui tra poco ricorrerà l’anniversario (a questo proposito siamo molto contenti che sua madre, Heidi Giuliana, il 21 luglio, subentrerà al parlamento in senato al posto di Gigi Malabarba). Dicevo, vogliamo verità e giustizia. Per esempio, Andrea Carpani - l’altro agente del Sismi e l’autista della Toyota in cui c’erano Giuliana Sgrena e Nicola Calipari - in un’intervista dice che secondo lui - ed è uno che se ne intende - a sparare non è stato solo Mario Lozano, ma sono stati più armi. E i 58 colpi di cui solo uno è finito sul motore ci fanno sospettare che ci fosse una deliberata volontà di uccidere. Perché non si cercato di arrestare la macchina ma si è ucciso dove c’erano le persone? Solo un colpo è finito sul motore della macchina. C’era probabilmente un obiettivo politico nel sequestro - come il rientro nella scena politica dei Sunniti - e ci sono una serie di domande di cui parlerà meglio Giuliana.

Noi quindi abbiamo lottato per fare liberare Giuliana così come vogliamo che sia liberato l’Iraq. Questo non perché - ovviamente tutti noi siamo d’accordo sul fatto che Saddam Hussein fosse inaccettabile e che fosse un mostro - noi pensiamo che la democrazia non possa essere esportata con le armi e che un popolo deve trovare il proprio futuro attraverso tutte le contraddizioni e le difficoltà di una crescita collettiva. Le cose non sono migliorate. Prima siamo andati in una trasmissione televisiva e Giuliana parlava del ruolo delle donne come profondamente peggiorato rispetto alle libertà che quel paese aveva prima, di un paese che era laico. Questo ci pone alcuni interrogativi sul piano politico.

E vado a chiudere. Io penso che bisogna scoprire la verità di una vicenda che ha cambiato profondamente la vita di Giuliana. Ma noi pensiamo che debba essere differente il comportamento del governo italiano rispetto a quello americano. Questo governo di centro sinistra deve mettere in atto delle pressioni diverse al governo americano, che cerca di nascondere la verità (se vi ricordate il ministro della difesa Martino del recente governo, durante la commemorazione di Calipari, disse che era stato il fato ad uccidere). Ecco, non è così. Sono state pallottole, pallottole sparate volontariamente. Io mi avvio a chiudere ringraziandovi per la vostra presenza e ricordandovi due cose. La prima è il movimento pacifista. Ci pare strano che in questo paese vengono intitolate strade e piazze a Quattrocchi, ai caduti di Nassirya e magari non vengono intitolati a Baldoni o a Nicola Calipari. Chi sia il circolo culturale "Primomaggio" credo che buona parte di voi lo sa, comunque troverete in sala del materiale illustrativo, abbiamo un nostro giornale, abbiamo un sito internet che potete consultare. Se vi interessano le nostre iniziative, potete lasciarci le vostre e-mail. Ne abbiamo fatte già 11 dall’inizio di quest’anno, cioè una ogni 15 giorni. E alcune di queste le abbiamo fatte a Perugia, come quella con Giulio Girardi oppure il video sulle comunità di pace colombiane. E un’altra ancora insieme a molte altre associazioni della città, facendo venire Arturo Paoli - lo scorso gennaio - proprio in questa sala. La prossima iniziativa, lunedì 19 giugno, a Bastia Umbra, è la presentazione del libro "Scelgo la Costituzione", scritto da una serie di giuristi tra cui il professore Mario Volpi, preside della facoltà di giurisprudenza. Sarà presente uno dei coautori, il professor Maurizio Oliviero.

L’ultimissima cosa che volevo dire è che abbiamo invitato Giuliana non a caso dopo che qualche giorno fa sono venuti Gabriele Polo - il direttore del Manifesto - e Valentino Parlato. Giuliana è una giornalista del Manifesto - oggi ne ha scritto l’articolo di fondo - e questo giornale è in difficoltà economiche. Non è una sorpresa e non è la prima volta, manca un milione e mezzo di euro. Fanno come al solito una campagna di sottoscrizione e io penso che, se noi possiamo contribuire, questo sia utile. Il Manifesto è un compagno di strada da sempre delle nostre attività, ha finito i suoi 35 anni; quindi se vogliamo una crisi di crescita, diciamo così! Io, che ho fatto la diffusione militante nei primi anni ’70 in una città democristiana come Assisi, so come fosse visto male ma anche quale strumento utile rappresentasse. Quindi penso che il nostro piccolo contributo lo possiamo dare tutti, per far sopravvivere per altri 35 anni e oltre il Manifesto. Grazie.

Primo Tenca: Grazie a Luigino Ciotti. Passo la parola a Giuliana Sgrena.

Giuliana Sgrena: Vorrei ringraziare innanzitutto gli organizzatori e Luigino per le cose che ha detto, non solo su di me ma anche sul mio giornale che attraversa un momento difficile. Ora è banale dire che il Manifesto attraversa dei momenti difficili, ma questo è veramente uno dei momenti particolarmente difficili! E ringrazio tutti voi della vostra presenza, per me è particolarmente emozionante venire a presentare il mio libro proprio qui perché questa sala e questa città hanno segnato un po’ tutte le tappe della mia vita come pacifista. Io qui sono stata spesso e quindi mi ritrovo un po’ come a casa mia, per quel che riguarda almeno la mia militanza pacifista. Quindi vi ringrazio molto per questa accoglienza molto calorosa. Io non parlerò molto perché immagino che voi abbiate molte domande e penso che, attraverso un dialogo con voi, si possa meglio sviluppare un discorso sia sulla mia vicenda, sia sul caso Calipari, che sulla situazione in Iraq. Preferisco fare una breve introduzione e poi rispondere alle domande perché così mi sembra più utile e più vivace; e in questo modo ci possiamo parlare più liberamente, mi sembra un buon modo di dialogare.

Parto dal libro. Il libro è intitolato "Fuoco amico" e "Fuoco amico" ha per me un doppio significato. Il primo è naturalmente quello che si può più facilmente intuire e immaginare: il fuoco amico di soldati americani che hanno sparato sulla macchina in cui viaggiavano degli Italiani, quindi degli alleati nell’occupazione dell’Iraq (anche se io non sono d’accordo con l’occupazione, però di fatto noi eravamo degli Italiani e teoricamente potevano anche non sapere chi ero io). Sapevano però che c’erano degli agenti dell’Intelligence Italiana e quindi quanto più alleati di quanto potesse essere una cittadina comune. Eppure hanno sparato per uccidere. Questa è la conclusione dell’inchiesta della Magistratura Italiana su cui poi posso anche ritornare.

Ma per me fuoco amico è stato anche il mio sequestro. I sequestratori che dicevano di combattere per la liberazione del loro paese dall’occupazione e che hanno sequestrato me - che non avevo mai nascosto e che avevo sempre dichiarato la mia opposizione alla guerra e la mia opposizione all’occupazione - anche questo l’ho sentito come fuoco amico. Perché proprio me, perché sequestrare proprio me? Questa è la domanda che mi ha lacerato durante tutto il periodo del mio sequestro. Anche se poi i miei sequestratori davano delle spiegazioni, dicevano che chi andava in giro a parlare con la gente, a interrogare, a cercare di sapere di più, era più pericoloso di chi rimaneva rinchiuso in un albergo e faceva i propri articoli leggendo le agenzie internazionali. Oppure loro dicevano che tutti noi stranieri, che tutti noi occidentali potevamo essere delle spie e la prima settimana mi hanno accusato e hanno insinuato il dubbio che io potessi essere una spia. Poi dopo una settimana mi hanno detto " Adesso sappiamo chi sei, comunque ti utilizziamo lo stesso perché noi dobbiamo utilizzare tutti i mezzi a disposizione ". Era però lo stesso una realtà difficile da accettare, che questi avessero sequestrato proprio me; dopo di che mi sono resa conto che, anche se loro avessero saputo chi ero (quando mi hanno sequestrata sapevano solo che ero una giornalista italiana), comunque mi avrebbero sequestrata. Pensando a questo, mi sono resa conto che io stessa, che pur facevo le previsioni più pessimiste sulla situazione dell’Iraq e sugli effetti provocati da una guerra e da un’occupazione tremenda, non ero comunque arrivata ad immagine la devastazione così profonda e l’imbarbarimento provocato in una popolazione che fino a qualche tempo prima era assolutamente solidale nei confronti di noi giornalisti; che capiva le differenze tra le posizioni dei pacifisti e quelle dei governi (peraltro io ero arrivata a Baghdad con il "Ponte per Baghdad" per fare la manifestazione del 15 febbraio del 2003 che si faceva in tutti paesi, contro la guerra, sperando - illudendoci forse - di poter fermare quella macchina della guerra che ormai era stata avviata e che quindi difficilmente poteva essere fermata). E comunque per me è stato molto difficile - direi quasi un tormento per tutto il periodo del sequestro - pensare che comunque loro, pur sapendo alla fine chi fossi, mi utilizzassero così. Però era una realtà che dovevo accettare. Ho raccontato la mia esperienza nel libro senza fare una cosa cronologica: tra l’altro a me dà molto fastidio parlare di me, che sono solo una testimone, quando vado in un terreno di guerra e di conflitti, in un terreno di sofferenze. In questo caso però, un po’ di me ho dovuto parlare anche perché penso che parlare come si vive di fronte al pensiero della morte, come si vive in una certa situazione, può servire a fare capire come io ho vissuto. Mi sento in qualche modo di doverlo a tutti voi che tanto vi siete mobilitati per ottenere la mia liberazione. Io non sapevo che cosa succedeva al di fuori di quelle quattro mura in cui ero rinchiusa, l’ho saputo solo dopo quando sono tornata. Però ho saputo tante cose belle che sono state fatte, cose che io non potevo neanche immaginare soprattutto nelle loro dimensioni. Quindi per me era importante anche comunicare come io avevo vissuto lontano da voi quei giorni anche perché io mi ero quasi convinta che ci fosse come una sorta di comunicazione telepatica e che se dentro la mia prigione io resistevo e non mi abbattevo, anche fuori da quelle mura chi voleva salvare la mia vita avrebbe avuto la stessa forza, la stessa resistenza e la stessa convinzione che era possibile liberarmi. Quando poi sono tornata e ho visto tutto quello che era successo, ho pensato che allora c’era qualche cosa: forse l’esperienza comune - per tanti anni di pacifismo - di lotte contro le guerre che ci accomunava e che ci ha accomunato in quel mese di prigionia. Quindi ho voluto raccontare un po’ di cose in maniera più approfondita di come erano uscite sui giornali.

Io mi sono resa conto che, pur essendoci anche da parte dei miei colleghi e della stampa molta solidarietà durante il periodo della mia prigionia, poi però, quando sono tornata, c’è stato un po’ di accanimento contro di me; certo, non da parte di tutti ma da parte di alcuni che mi hanno rimproverato di non fare il mio lavoro come si doveva. Io rivendico fino in fondo in mio modo di fare il mio lavoro anche se questo mi è costato il sequestro, perché io penso che andare in un territorio di conflitto di guerra e scrivere su quelle realtà, si possa fare solo se si raccolgono le informazioni, se si verifica sul terreno ciò che succede . Io non posso accettare di stare a Baghdad, di stare in un albergo chiusa, di farmi portare le notizie dagli Iracheni oppure di leggere le agenzie via satellite, di stare lì solo perché sono "inviata a Baghdad". Questo per me sarebbe un’offesa perché, se sono inviata a Baghdad e non vedo cosa succede, tutto questo è una menzogna. Peraltro io con questo "inviata a Baghdad" non guadagno neanche un euro in più di quanto guadagno se fossi in redazione a Roma, quindi non ho neanche questa motivazione di soldi per scrivere "inviata a Baghdad" (peraltro non lavorerei al Manifesto se volessi guadagnare di più!).

Rivendico fino in fondo il mio modo di fare questo lavoro e quello che ho fatto lo farò se avrò la possibilità di tornare in Iraq e a Baghdad (cosa che spero tanto possa avvenire, perché ho molti rapporti con le persone che vivono lì). Il modo di fare il mio lavoro lo rivendico fino in fondo perché non penso che si possa fare informazione andando embedded con le truppe, avendo un’ottica esclusivamente militare. Se tu vai embedded, devi sottoscrivere ad un accordo con le truppe che ti impongono certe regole che non sono quelle militari ma che da queste non sono poi molto diverse. Io posso capire che qualcuno voglia fare un’esperienza del genere ma non posso accettare che questo sia l’unico modo di fare informazione in una situazione come quella irachena. Non è questa certamente una situazione esclusivamente dell’Iraq, ce ne sono altre; ma in Iraq questa situazione si è particolarmente aggravata e l’unico modo per fare informazioni oggi, è quello di andare embedded. E questo significa agire sotto l’ottica militare, sottostare alle regole di chi occupa quel paese e fare un’informazione che è sostanzialmente militarizzata in cui tu osservi solo con l’ottica di chi occupa il paese, di chi fa le battaglie, di chi distrugge Fallujah. Io penso che in Iraq l’informazione sia stata militarizzata e sia diventata una vittima di questa guerra. E ciò, secondo me, è gravissimo. Se voi guardate le informazioni che arrivano dall’Iraq, sono informazioni decontestualizzate: ogni giorno ci sono vittime, autobombe, sparatorie, i morti che oggi sono 15 e domani trenta. Quando le informazioni sono così - e non possono essere che così - c’è un’assuefazione alla morte e alla distruzione e non ci facciamo più caso, perché ormai rientra nella quotidianità e normalità. Magari se i morti sono mille o si sa che gli Americani hanno ucciso per rappresaglia donne e bambini, questo fa più notizia o impressione. Ma siccome di queste notizie ne arrivano ben poche, tutto il resto finisce tra le altre informazioni e non ci si fa più caso; anche perché spesso non si hanno gli strumenti per interpretare quelle notizie. È come se non ci fossero notizie e la guerra si allontanasse. E, se si allontana la guerra, si allontana anche l’impegno politico per fare battaglia su quella realtà. Io spero che non sia così, ma questa cosa si avverte molto facilmente. Ad esempio ci siamo molto impegnati sull’Afghanistan ma nel momento in cui è scoppiata la guerra in Iraq, l’Afghanistan è stato dimenticato: e nel momento in cui è stato dimenticato, sembrava che lì tutto fosse stato pacificato, che non ci fossero più problemi, che tutto fosse apposto. Tanto è vero che si proponeva il modello afgano per l’Iraq. E invece non è così e oggi ci rendiamo conto che ci sono morti anche lì, che muoiono gli Italiani, che muoiono gli Americani, che muoiono gli Afgani ogni giorno. Però, fino a che vediamo tutte queste notizie decontestualizzate, non diamo loro il valore che hanno, non riusciamo ad interpretarle.

Per questo io ho voluto, nel mio libro, oltre a raccontare della mia esperienza - che è ridotta a due o tre capitoli - parlare dell’Iraq. Parlare dell’Iraq per fare capire quello che era successo a me. Parlarne, perché senza capire cosa è l’Iraq oggi non si può neanche capire come dei sequestratori che si dicono impegnati per la sua liberazione, rapiscano una giornalista che è impegnata contro l’occupazione; perchè altrimenti non si può capire come degli Americani sparino contro degli alleati e poi rispondano:" È la guerra, quindi noi spariamo". Ho voluto parlare dell’Iraq perchè anche io sento ogni giorno le informazioni che arrivano dal quel paese senza che però siano collocati in alcun contesto. Ho cercato quindi di collocarle all’interno di un contesto, di darle una griglia di interpretazione - per quanto limitata possa essere – di far quadrare un’informazione all’interno di alcune caselle e far capire cosa sta avvenendo. Alcune cose di cui si parla oggi, come ad esempio la guerra civile, sono in realtà processi in atto da molto tempo in Iraq. Prima, però, di guerra civile non si parlava e si diceva che se noi ci fossimo ritirati dall’Iraq, sarebbe scoppiata la guerra civile. La guerra civile è cominciata più di due anni fa e nessuno ne parlava perché era l’alibi per non andarsene dall’Iraq.

Io sono stata tante volte in Iraq dall’inizio della guerra, quando sono stata rapita era la settima volta che andavo. Sono rimasta sempre parecchio tempo - anche un mese, un mese e mezzo – e ogni volta ho trovato una situazione peggiore della precedente. Non mi si può allora dire che l’occupazione serva, perché altrimenti avrei dovuto vedere dei passi in avanti, anche piccoli. Invece, dalla prima all’ultima volta ho sempre visto la situazione peggiorare. Nel paese manca l’elettricità – ci sono tre o quattro ore al giorno - manca l’acqua, non c’è lavoro, la disoccupazione è altissima. La cosa più paradossale è forse il fatto che in Iraq manca la benzina, in un paese che galleggia sul petrolio! Non c’è benzina, non c’è sicurezza, non c’è niente. La maggiorparte dei soldi investiti in Iraq vanno per la sicurezza, ma la sicurezza non c’è mai lo stesso. Io allora penso che, di fronte a questa realtà che si ripropone in continuazione, che alimenta sé stessa ed è sempre uguale, bisogna dare un segnale diverso. Io penso che solo una rottura di questo circolo vizioso – il quale può avvenire solo con il ritiro delle truppe - può interrompere la spirale della violenza. Non è che con il ritiro delle truppe cambia tutto e tutto viene pacificato in Iraq; non è che tutti diventino contenti e felici, che ritorni lo sviluppo, la benzina o l’elettricità. Il problema sta nell’imbarbarimento prodotto da questa guerra e dall’occupazione: se si ritirano tutte le truppe - che non hanno risolto nessun problema – intanto, per esempio, verrà meno la necessità per la resistenza di combattere contro l’occupante perché non questo non ci sarebbe più. Si toglierà un alibi ai jihadisti e ai terroristi (anche se è stato eliminato Al Zarkawi, ci sono i gruppi che continuano a fare le loro attività). Questi gruppi di terroristi sono composti per la maggiorparte da stranieri venuti da fuori, perché, dopo l’abbattimento di Saddam, il paese ha avuto un vuoto politico-istituzionale e militare e quindi tutte le frontiere erano sguarnite. Questi gruppi di islamisti sono andati lì per fare il loro Jihad – tradotto un po’ grossolanamente la "guerra santa"- e combattono contro gli infedeli. Gli infedeli per loro non sono solo gli Occidentali ma anche gli Sciiti che considerano dei traditori. Loro sono di origine sunnita e hanno un’interpretazione fondamentalista, sulla base della convinzione sunnita. E oramai, i gruppi terroristici, con le loro bombe, ammazzano più Iracheni che stranieri; ammazzano donne, bambini, gente nelle moschee. Se non ci sarà più l’occupazione, forse verrà tolto l’alibi di aver scelto l’Iraq come terreno per combattere il loro Jihad, perché fa molto leva che è un paese occupato dall’infedele occidentale. Se non c’è più l’infedele occidentale, diventerà più difficile per loro stare lì e continuare ad ammazzare Iracheni. Questa cosa sarà più chiara agli occhi di tutti quanti. Tra l’altro io penso che la cattura e l’uccisione di Al Zarkawi non sarebbe stata possibile se molti degli Iracheni della resistenza irachena (anche la resistenza irachena è qualcosa di molto complessa, di molto composita, che fa molti errori, come i sequestri che sono una cosa assolutamente inaccettabile: io ne sono stata vittima, quindi figuratevi se posso accettare questi metodi. Però la resistenza è una cosa diversa dal terrorismo) ad un certo punto non si fossero resi conto che il terrorismo nuoceva all’immagine di chi voleva liberare il proprio paese. Penso che se non ci fosse stata questa presa di distanze dal terrorismo, probabilmente Al Zarkawi non sarebbe stato preso. Non ho nessuna prova per sostenere questo, però ho visto che da tempo c’erano molte prese di distanza da parte della resistenza nei confronti del terrorismo e anche dei tentativi di rientrare in gioco nella situazione irachena per diventare interlocutori. In fondo io penso che una resistenza armata non abbia nessuna possibilità di successo in Iraq. Gli iracheni, infatti, sono molto armati e molto addestrati ma a confronto dell’esercito americano hanno ben poche chance. E poi penso che quando una resistenza si militarizza, ha in sé un connotato di violenza che poi si ripercuote sulla stessa popolazione. Molte scelte della resistenza sono state imposte con la violenza sulla stessa popolazione irachena. Io sono favorevole a tutta quella resistenza che c’è in Iraq che è pacifica, che è della popolazione, che è della società civile, però devo riconoscere che c’è una legittimità della resistenza armata se un paese è occupato. Però la resistenza è una cosa e il terrorismo è un’altra. Quindi è possibile proporre una trattativa anche con una resistenza armata a certe condizioni e io penso che ci sia questa possibilità per andare avanti e per cercare una soluzione per questo conflitto (ma certo non si può trattare con i terroristi che ogni giorno massacrano decine e decine di persone in Iraq). Dunque, se ci fosse il ritiro delle truppe - con una rottura netta, però - sicuramente si avvierebbero dei processi diversi. È chiaro che questo non avverrebbe immediatamente perchè le rivalità che ci sono in Iraq tra fazioni rivali - tra chi era del partito Baath e gli Sciiti e i Curdi - sono dei processi che si devono esaurire. Io penso che queste cose si potrebbero anche acuire nel momento in cui le truppe lasciassero l’Iraq; però non durerebbero in eterno e alla fine si risolverebbero. Ora purtroppo non sono sicura – anzi, sono piuttosto scettica - sul fatto che gli Americani, dopo aver fatto la guerra, abbiano intenzione di abbandonare il paese.

Spero invece che l’Italia sia il prossimo paese ad abbandonare l’Iraq e ad abbandonarlo in fretta. L’Iraq non è l’Afghanistan ma penso che i due scenari stiano sempre più avvicinandosi e anche oggi abbiamo visto attentati vicino Kandahar che ricordano molto quello che sta succedendo in Iraq. Io sono contro tutte le guerre, contro tutti gli interventi militari, dall’Afghanistan al Kosovo fino all’Iraq; quindi spero che le nostre truppe vengano ritirate da tutti questi scenari di guerra perché la nostra politica estera non si deve fare inviando militari all’estero ma deve essere basata su un’elaborazione e una visione politica del mondo che sia basata soprattutto sul dialogo e sui rapporti con gli altri popoli e che tenga presenti soprattutto i popoli e non solo i governanti. Quello che sta succedendo oggi in Palestina con la punizione di tutto il popolo Palestinese - perché ha al governo Hamas, che peraltro in passato è stato appoggiato da Israele per indebolire l’OLP - mi sembra veramente una cosa indegna. Io sono stata recentemente in Palestina e ho visto delle cose terribili; si sta riducendo un popolo alla fame. Ora Hamas non piace neanche a me - una buona parte dei Palestinesi già soffre perché non vorrebbe avere un governo di quel genere - ma perché noi dobbiamo ulteriormente isolarli e penalizzarli perché hanno questo governo? Penso che la politica estera si debba basare su altri principi, diversi da quelli su cui si basa oggi.

E infine, brevemente, arriviamo alla questione di Nicola Calipari. Naturalmente, è una cosa che mi tocca molto da vicino perché è stato veramente terribile: io pensavo di poter essere finalmente libera e invece sono stata privata di una parte di questa libertà perché è stata uccisa la persona che mi aveva liberata dai miei sequestratori e che è morta per proteggere me, per salvarmi la vita. Io non penso - né come ha detto il ministro Martino né come aveva detto prima il ministro Castelli - di essere la causa della morte di Calipari. Sono gli Americani che lo hanno ucciso. E però io devo molto a Calipari, devo molto alla sua famiglia perché la moglie di Calipari mi ha aiutato molto a superare questi momenti. Tutti noi Italiani – non io sola - dobbiamo molto a Nicola Calipari che prima di me aveva salvato anche altri ostaggi Italiani in Iraq e ha fatto molte altre azioni meritevoli. Io l’ho scoperto solo quando sono tornata dall’Iraq, prima non lo conoscevo e l’ho conosciuto solo per venti minuti in macchina. Quello che gli dobbiamo è scoprire la verità su quello che è successo quella notte a Baghdad. Io su questo non mi fermerò. Certo non mi faccio illusioni, abbiamo molti altri esempi in Iraq e in Italia di casi di stragi che hanno coinvolto gli Americani e che sono arrivate a delle soluzioni a dir poco vergognose. Ma penso che bisogna fare di tutto per scoprire quello che è successo nonostante le molte difficoltà; gli Americani hanno fatto di tutto - hanno stabilito delle regole tra stati, hanno fatto accordi - per garantire l’impunità ai loro soldati. Qualsiasi cosa commettono in qualsivoglia paese, loro hanno garantita l’impunità. Non possono essere perseguiti in nessun altro paese che non sia il loro e nel loro paese non vengono perseguiti. Nel nostro caso la commissione militare d’inchiesta america ha detto che i soldati hanno sparato perché sono in guerra. Ma allora, se loro sono in guerra, non si capisce bene come noi possiamo avere una missione di pace in un paese in guerra essendo alleati con loro!

Spero veramente che il ministro D’Alema sollevi la questione del caso Calipari con Coondoleza Rice e cerchi di ottenere qualche cosa di più di quello che ha ottenuto il governo precedente. Castelli si era limitato a trasmettere la rogatoria e a ringraziare gli Americani quando ci hanno detto che non ci avrebbero dato nessuna informazione. E questo francamente mi sembra una vergogna. Io mi rendo conto che è molto difficile ottenere una collaborazione da parte degli Stati Uniti, però almeno bisogna agire da stato sovrano e non da stato succube degli Americani. Quindi io penso che ci voglia l’impegno mio, di chi è stato più coinvolto ma anche l’impegno dei cittadini Italiani: credo che sia una questione di civiltà. Tutti hanno diritto a sapere cosa è successo e quindi ci vuole un impegno di tutti quanti - una pressione sul governo italiano - perché non lasci cadere ancora una volta una questione di questo genere. Nei prossimi giorni ci sarà probabilmente il rinvio a giudizio di Mario Lozano per l’omicidio volontario di Nicola Calipari. Gli Americani non permetteranno di comunicare questo procedimento a Mario Lozano perché pare che lo abbiano già nascosto in una base militare del Pacifico. Quindi diventa veramente difficile fare un processo perché il processo è possibile in contumacia solo se l’omicidio viene definito politico. E l’omicidio politico può essere considerato se in qualche modo si tratta di un’offesa nei confronti dello Stato Italiano, dell’uccisione di qualcuno che faceva parte dello Stato Italiano. Io penso che Nicola Calipari - uno degli agenti più bravi del Sismi - era un servitore dello stato e io ho parlato a volte con dei suoi compagni e mi sono meravigliata per l’affermazione di uno di loro che mi ha detto: "Noi siamo servitori dello stato, non del governo". In questo senso penso che quello di Calipari possa essere considerato un omicidio politico. Dovremmo insistere su questo perché ciò renderebbe possibile un processo anche se Mario Lozano non venisse rintracciato (ammesso che poi sia stato solo Mario Lozano a sparare perché ad esempio Andrea Carpani - che era l’agente in macchina con noi – ha detto di aver avuto la percezione nettissima che fosse più di un’arma a sparare. Non solo, il mio esperto che ha fatto parte della commissione di esperti nominati dalla magistratura - c’erano gli esperti nominati dalla magistratura, quelli nominati da me e quelli nominati dalla signora Calipari - ha trovato una scheggia sulla macchina che era incompatibile con le altre. Questo significa che c’era una seconda arma che ha sparato. Allo stesso modo uno dei periti della signora Calipari ha scoperto che, nella sequenza dei proiettili entrati sulla macchina, ce n’era uno che non vi rientrava. Siccome loro sparavano con la mitragliatrice, tutti colpi sarebbero dovuti essere in sequenza ma ce n’era uno che non lo era. Anche questo indicherebbe che è stata più di un’arma a sparare). Io spero comunque che alcune di queste cose e che molte delle contraddizioni contenute nel rapporto degli Americani possano essere chiarite. Questo per una questione di dignità perché Calipari, quando è tornato in una bara dall’Iraq, è stato celebrato da tutti - dal governo come dalla gente del popolo, da tante persone comuni – come un eroe. Io sono contraria a queste visioni un po’ patriottiche, a queste espressioni così: però chi ha sostenuto che era un eroe, adesso dovrebbe agire di conseguenza e non può cancellare o sostituire un eroe con un altro. Non è più un eroe Calipari, diventa un eroe Quattrocchi. Questo è veramente un’offesa. Ma ora non voglio dilungarmi di più, penso che possiamo continuare con delle domande.

(Nota: A causa di problemi tecnici con l’impianto di registrazione, la trascrizione degli interventi del pubblico è risultata molto difficoltosa. Per questo motivo, nel seguente documento, sono riportati solo brevi sunti delle domande degli spettatori.)

Prima serie di interventi: domande sui motivi per cui gli Americani hanno sparato a Giuliana Sgrena e sulle ipotesi politiche per una risoluzione della questione irachena.

Giuliana Sgrena: Perché gli Americani mi hanno sparato lo vorrei sapere anch’io! Perché hanno voluto sparare a me, a Calipari, a chi e perché, questo fa parte della ricerca della verità che non sappiamo, su cui dobbiamo essere impegnati tutti quanti.

Per quanto riguarda l’altra domanda, ringrazio innanzitutto chi ha fatto la domanda per aver ricordato che io avevo previsto questa cosa [nel gennaio del 2005 Giuliana Sgrena ipotizzò una vittoria sciita alle elezioni irachene contrariamente a quanto congetturato dalla maggioranza della stampa italiana che prevedeva invece una vittoria di Allawi]. E lo posso dire tranquillamente: è stato difficile far pubblicare quei pezzi anche sul mio giornale, perché la convinzione non era quella mentre io invece avevo maturato quell’idea andando per due giorni a Sadr-City che è la bidonville sciita di Baghdad. Anche io quando sono arrivata a Baghdad non mi immaginavo quello scenario; ma stando due giorni con loro avevo capito che la realtà era ben diversa da quella che noi ci immaginavamo stando in Italia. Per quel che riguarda un’ipotesi politica futura, questo è molto difficile da immaginare perché per ora abbiamo uno scenario frammentato e diviso in cui ci manca un tassello. Noi abbiamo una visione del mondo sciita che per ora è governato soprattutto dai partiti religiosi con forti legami con l’Iran. Poi abbiamo il Kurdistan che è dominato dai partiti tradizionali curdi che sono più laici e puntano su un’indipendenza camuffata da autonomia, indipendenza difficile da raggiungere soprattutto se non possono controllare completamente Kirkuk che è la città che produce il 40 % del petrolio iracheno. Inoltre tutti i paesi vicini sono contrari alla nascita di un nucleo o di uno stato curdo, perché questo influenzerebbe la situazione sia in Iran, sia in Turchia che in Sira dove ci sono le altre comunità curde. Ma, come dicevo, in questo scenario, manca un tassello che è quello sunnita, il triangolo sunnita che è quello più interessato dalla resistenza e dalle violenze in questo momento. Dico che manca un tassello non perché appunto non consideri questa resistenza come un protagonista della scena irachena ma perché questa resistenza - che è molto variegata ed è formata da gruppi che vanno dell’ex partito Baath, con ex saddamisti, a gruppi che sono fondamentalisti islamici, ad altri che sono nazionalisti ed altri gruppi ancora che mettono tutte queste componenti assieme - ha il problema di non avere una rappresentanza politica. Quindi non possiamo sapere che cosa prevede per il futuro dell’Iraq, non sappiamo che stato vuole, se ne vuole uno laico o uno confessionale. Sappiamo più o meno che cosa propongono - almeno per ora - i Curdi che vogliono uno stato federalista. Sappiamo che gli Sciiti vorrebbero uno stato islamico anche se in questo momento si accontentano di uno stato dove la principale fonte della legge è quella islamica.

Restano però fuori i Sunniti; questo anche perché la situazione di questo processo - cosiddetto di democratizzazione - voluto dagli Americani, ha seguito delle tappe che non erano le tappe di un reale sviluppo della società irachena dopo la caduta di Saddam ma facevano parte di un piano di transizione che era funzionale alle esigenze degli Americani. Quindi si è preferito dare spazio solo ai partiti religiosi - a scapito di tutte le altre componenti - per poter fare delle elezioni. Le prime sono state in qualche modo avvallate dal fatto che il grande ayatollah Al Sistani, il grande leader religioso sciita, ha deciso di accettarle e di sponsorizzare una lista confessionale fatta tutta di Sciiti e che poi ha vinto le elezioni. In questo modo gli Sciiti potevano prendersi una rivalsa su tutto il passato del paese in quanto l’Iraq era sempre stato governato da Sunniti. L’accettare le elezioni - che tra l’altro, probabilmente, non erano regolari – è stata vista dagli Sciiti, che sono il 60% della popolazione irachene, come l’occasione per arrivare finalmente al potere.

Le ultime elezioni hanno invece visto anche la presenza sunnita. Siccome la resistenza sunnita non ha di fatto una rappresentanza politica, questa capacità di rappresentanza è stata surrogata dal consiglio degli Ulema , così come aveva fatto la prima volta Al Sistani che aveva emesso una fatwa - che è una sentenza coranica - per dire agli Sciiti che dovevano andare a votare. Il consiglio degli Ulema ha allora deliberato un’altra fatwa per dire ai Sunniti che anche loro dovevano andare a votare. Ma anche in questo caso le liste sono state soprattutto religiose e la rappresentanza era quasi esclusivamente etnico-confessionale, curdo-sunnita-sciita. E questo è uno stravolgimento della realtà irachena perché tutte le forze laiche che c’erano nelle varie comunità sono state completamente annullate, soffocate, e stravolte mentre il potere è stato assunto dai partiti religiosi o dalle componenti etniche. Tutto ciò è avvenuto perché non è stata data la possibilità di sviluppare veramente un tessuto sociale, civile, democratico. Finchè il paese sarà occupato, non ci sarà sicurezza, non ci sarà alcuna possibilità di organizzarsi per la società di civile, ed è chiaro che chi prevarrà sarà chi ha il potere nelle moschee.

Seconda serie di interventi: domande sul trattamento ricevuto dai sequestratori, sulle responsabilità politiche del governo italiano e dell’Europa, sull’informazione in Iraq, sui motivi che hanno portato alla morte di Nicola Calipari, sul comportamento dei giornalisti.

Giuliana Sgrena: Allora, vedo di andare in ordine. Se devo definire il trattamento nei miei confronti, penso che mi abbiano trattata come una prigioniera politica nel senso che non mi maltrattavano ma dovevo seguire alcune regole imposte dai miei sequestratori. Comunque ero sempre chiusa sotto chiave, non avevo quasi mai la luce - ma perché a Baghdad luce non ce n’era - non avevo più niente di mio, non potevo neanche sapere l’ora perché non avevo più neanche l’orologio, non avevo un foglio su cui scrivere, non avevo un libro, un giornale o qualcos’altro da leggere. Avevo però da mangiare, le medicine se mi servivano, la doccia ogni quattro giorni, quando era possibile per la questione dell’elettricità e dell’ acqua. Era questa una situazione comunque terribile perché ero privata di qualsiasi cosa da fare, privata della libertà. Se voi pensate che una persona sta 24 ore al giorno sola con i propri pensieri e i propri pensieri non sono i più ottimisti perché ha di fronte la possibilità di morire, credo che questa sia una tortura non dico più grande - perché le torture fisiche sono cose terribili - ma comunque è una forma di tortura psicologica non indifferente. Non posso però dire di essere stata minacciata o maltrattata dai miei rapitori. Ci sono stati anche dei momenti in cui abbiamo avuto la possibilità di scambiare limitatamente delle opinioni: dico limitatamente, perché io avevo paura a chiedere di più e temevo che, sapendo di più, sarei stata maggiormente in pericolo. Il fatto che li vedevo sempre in faccia già mi faceva pensare che mi avrebbero uccisa perché sarebbe stato per loro un pericolo se io fossi uscita. E quindi la mia condizione la potrei definire quella di una prigioniera di guerra. Ora è vero che gli Americani non riconoscono più i prigionieri come prigionieri di guerra, ma io immagino che prima i prigionieri di guerra fossero trattassi così: senza maltrattamenti ma anche senza concessioni e senza possibilità di avere distrazioni.

Io ho rinunciato alla possibilità di essere candidata alle elezioni, quindi figuratevi se posso immaginare cosa farei se fossi Presidente del Consiglio o Ministro. Ritengo però che l’Italia dovrebbe avere, oltre che una politica in tutti gli altri settori, anche una politica estera vera; cosa questa che non è avvenuta più negli ultimi anni. In passato l’Italia ha avuto una politica estera ma negli ultimi anni questa si è ridotta ad interventi militari all’estero oppure a inviare centinaia di imprenditori a fare affari. Questa non è una politica estera, questo è solo business oppure rafforzare il proprio legame con l’occidente con l’invio di militari all’estero. Questa logica dovrebbe assolutamente cambiare a partire dalla costruzione di una politica estera in Medio Oriente. Ciò ci darebbe importanza non solo con i paesi della zona - che ancora ci considerano come un paese che può dare un contributo per la soluzione ai loro conflitti - ma ci darebbe un ruolo anche in Europa. Noi parliamo molto di Europa, ma l’Europa non ha una sua politica estera comune. Se l’avesse, sicuramente potrebbe contare di più. Nella guerra in Iraq ci sono state la Francia e la Germania che non hanno partecipato ma ci sono stati altri paesi che hanno aderito. E quindi non c’è stata e non c’è una condivisione di vedute. Forse è un po’illusorio che in Europa si possa avere la stessa visione visto che i governi sono diversi e hanno diverse tendenze politiche. Ciò costituisce la debolezza dell’ Europa, anche per farsi valere nei confronti degli Stati Uniti e per essere un punto di riferimento per gli altri paesi. Io credo che su alcune questioni, nonostante le differenze, l’Europa potrebbe diventare un punto di riferimento: penso ad esempio la questione dell’ Iran o anche al conflitto israelo-palestinese. Non si capisce perché l’Europa debba essere sempre succube di decisioni di altri e non invece trovare una propria strada, un proprio cammino.

Nel 1991 in Iraq, come organi di stampa c’erano la CNN e persino un giornalista del Manifesto, per qualche giorno. Penso che fossero gli unici organi di stampa presenti durante la prima guerra, anche se per poco tempo visto che anche loro poi sono stati evacuati. Adesso ci sono più televisioni, è vero: c’è Al Jazeera, c’è la televisione di Al Budabi, c’è Al Arabya e tutte danno molte informazioni su quello che sta avvenendo perché hanno contatti con iracheni all’interno. Però io penso che complessivamente anche in questa guerra non ci sia una vera informazione, che essa sia molto carente. In Iraq, da quando sono stata rapita, non c’è più nessun giornalista italiano. Non ci sono più spagnoli nè francesi. In Iraq ci sono solo alcuni giornalisti arabi e giornalisti americani: quest’ultimi vanno esclusivamente embedded e spesso ormai saltano anche loro sugli ordigni che colpiscono le truppe americane. Tutto ciò non significa che ci sia maggiore liberta e maggiore pluralismo di informazione. Gli Americani infatti subiscono le censure delle truppe americane mentre gli Arabi delle varie televisioni arabe sicuramente seguono altre logiche. Forse loro hanno una profondità d’informazione molto maggiore per i loro mezzi di comunicazione che hanno all’interno del paese, però anche quelle televisioni spesso sono orientate per la loro appartenenza al mondo arabo. Quindi io penso che si sia raggiunto, con la guerra in Iraq, il livello più basso dell’informazione. Anche i giornalisti iracheni sono a rischio, non solo quelli occidentali. Due giorni fa è stato ucciso un giornalista iracheno, ma non mi sembra che se ne parli. Ieri sono andata ad una trasmissione, a Rai International, e mi hanno fatto leggere una agenzia che parlava di uno sciopero dei giornalisti iracheni perché non riescono più a fare informazione. Da questa agenzia usciva fuori che i giornalisti uccisi fino ad ora, in questi tre anni di guerra e occupazione, sono stati 144. Le informazioni che avevo avuto fino ad ora parlavano di circa 90 giornalisti ma non di 144. Evidentemente erano stati esclusi collaboratori di giornalisti o sono stati ignorati molti giornalisti iracheni di cui non si sapeva neanche la morte. Comunque sono 144 e non ho nessun motivo per dubitarne. Questa è una cosa veramente terribile perché in vent’anni di guerra in Vietnam ne sono stati uccisi 63. In tre anni o poco più, in Iraq, ne sono stati uccisi 144, senza calcolare quelli che sono stati rapiti o altro. Ciò dimostra allora che in Iraq non è possibile fare informazione e lo dice una che, fino al giorno prima di partire per l’Iraq, sosteneva che non si poteva lasciare quel paese senza informazione e che bisognava assumere tutti i rischi per informare. Però io non voglio fare l’eroe, voglio semplicemente fare il mio mestiere. Ma io non posso più andare per informare perché se vado sono costretta ad andare embedded con le truppe - ci sono stati alcuni colleghi che sono stati con le truppe italiane a Nassiriya e non hanno neanche potuto mettere il naso fuori dalla base - e se vado con gli Americani, devo subire le loro censure. È questa la mia grande frustrazione derivata dal mio sequestro: in Iraq non è più possibile fare informazione ed una delle cose terribili di questa guerra è che non si sa più quello che succede.

Perché ci hanno sparato, perché hanno ucciso Calipari? Una possibilità naturalmente è che si volesse dare una lezione più o meno pesante agli agenti italiani perché trattavano per gli ostaggi e gli Americani non volevano assolutamente che ciò accadesse. Anche nel mio caso avevano proposto al governo italiano di intervenire perché dicevano di sapere dove ero tenuta prigioniera. Il governo italiano ha allora chiesto quante possibilità c’erano di liberarmi, loro hanno detto circa il 50% ed è stato risposto che non bisognava assolutamente fare nessun intervento (tra l’ altro i miei rapitori mi avevano detto che non volevano uccidermi, ma che se ci fosse stato un tentativo d’intervento, probabilmente sarei morta). Quindi c’era una forte tensione tra Italiani e Americani proprio su questo punto. Però io non ho nessun elemento per avvalorare una tesi rispetto all’altra. Ora questa è un’ ipotesi e penso che sia un’ipotesi molto fondata. Però non posso dire che questa sia l’unica, per onestà mia e intellettuale, perché non ho delle prove. Io stessa non ho questa certezza e non posso appunto ritenerla come l’unica. Quello che abbiamo verificato nel frattempo è che gli Americani sapevano chi c’era su quella macchina perché stavano monitorando i nostri telefoni satellitari e cellulari; quindi sapevano benissimo chi stavamo chiamando e cosa stavamo facendo, sulla strada per l’aeroporto. I due agenti, inoltre, avevano scollegato i loro telefoni per evitare di essere intercettati perché sapevano benissimo che gli Americani stavano controllando. Durante le fasi della mia liberazione e della mia consegna, loro avevano spento tutti i telefoni. Quando sono stata liberata, sopra di me c’era un elicottero americano che continuava a girare e questo lascia intuire che non erano all’oscuro di quello che stava avvenendo; peraltro l’elicottero non si allontanava mai. Quale interesse avessero eventualmente a far fuori gli agenti, questo non lo so e non ne ho idea.

Riguardo ai giornalisti italiani, in questa vicenda mi sono trovata dall’altra parte della barricata e sono stata sotto il loro "fuoco". Ho quindi capito di quanta violenza sono capaci i giornalisti che fanno la mia stessa professione, non solo nei miei confronti - facendo parte della stessa categoria avrei dovuto essere un po’ più vaccinata - ma per esempio nei confronti dei miei genitori. C’è un fatto che io non potrò mai dimenticare: quando stavano per trasmettere il mio video, il mio compagno che sapeva e che lo aveva già visto prima, avendone avuto la possibilità, ha telefonato a mio fratello perché preparasse mio padre e mia madre, nel momento in cui la televisione avesse trasmesso il video, ad affrontare una cosa di questo genere (non è certo facile per due genitori anziani vedere quell’immagine alla televisione). Bisognava dunque dire loro di non preoccuparsi, che almeno si sapevo che ero viva e che, anche se sembravo non molto presente a me stessa, comunque il loro giudizio era positivo perché le mie reazioni erano quelle di una persona che stava lottando e non era succube dei propri sequestratori. Mio fratello stava facendo la spesa e disse al mio compagno che sarebbe tornato a casa per vedere mio padre. Soltanto che mio padre, che era in giro anche lui, era tornato a casa cinque minuti prima di mio fratello - mio fratello abita nella stessa casa dei miei genitori, sono due appartamenti in un casa di campagna – e siccome lì ci sono sempre tutte le televisioni appostate - sono state lì tutto il mese davanti a casa mia - una giornalista, appena l’ha visto, è entrato in casa con lui, ha fatto entrare l’operatore e poi ha detto a mio papà di accendere il televisore. Mio papà si è trovato davanti il mio video e una telecamera a dieci centimetri che lo riprendeva. Ora, voi immaginatevi che cosa vuol dire questo, una persona di ottanta anni che non aveva neanche la possibilità di avere una spontanea reazione davanti ad un video di quel tipo. Questi sono i giornalisti italiani, questo è cannibalismo. La stessa cosa succede ogni volta che c’è un incidente e si va davanti alla madre o ad un figlio di una vittima e si chiede: " Che cosa prova? " Ma cosa volete che provi una persona che ha appena subito un trauma pazzesco? Io penso che tutto ciò sia indecente e che ci vorrebbe una forma di regolamento di fronte a queste cose, perché è veramente inaccettabile. Oltre a queste cose, abbiamo comunque tutti assistito allo spettacolo indecente delle televisioni italiane nel momento in cui tutto era in mano a Berlusconi e abbiamo visto l’assuefazione totale e l’asservimento totale a quello che diceva o faceva il governo. Io non so se tutti fossero convinti sostenitori del governo e della destra, ma sicuramente lo dimostravano. Come sono poi pronti a passare dall’altra parte appena vedono che l’aria comincia a cambiare. Quei pochi che invece hanno mantenuto la coerenza, sono quelli che pagano sempre. E poi ci poi sono quei giornalisti che se non obbediscono al loro editore, obbediscono ad altre logiche, generalmente di natura politica. Io penso che il giornalismo italiano dia veramente una brutta immagine di sé stesso. Non c’è la serietà o la capacità di fare delle inchieste, di rischiare in proprio. Quando si vanno a fare delle inchieste e si vogliono tirare fuori delle verità o delle informazioni, inevitabilmente si rischia. Si rischia su se stessi, perché uno può fare una cosa che gli dà credibilità ma può fare anche una cosa che invece non arriva fino in fondo o che può essere contradditoria. Qui invece non vuole rischiare nessuno se non ha le spalle coperte. Penso inoltre che, rispetto ai giornali stranieri, che sono molto più stringati, noi stiamo tanto a sproloquiare su ogni cosa ma senza dare contenuti. Tutte le cose che sono sugli altri giornali devono avere qualche pezzo di appoggio, qualche prova, qualche verifica. Invece i giornali italiani possono permettersi di scrivere tutto e il contrario di tutto senza che nessuno chieda mai loro conto di quello che scrivono e di quello che fanno. E credo che questo sia, per chi fa questa professione, un po’ indecente.

Terza serie di interventi: domande sul futuro delle donne in Iraq, sul ruolo dei mercenari nel conflitto, su come sta vivendo Giuliana Sgrena questo periodo successivo al sequestro, sull’episodio della richiesta di liberazione per Giuliana da parte dei capitani delle squadre di calcio.

Giuliana Sgrena: Purtroppo io non so prevedere quale sarà il futuro delle donne in Iraq. E questo lo dico con molto rammarico e con molto dolore, perché ho conosciuto molte donne irachene, molto in gamba, e tutte le volte che ho la possibilità di avere contatti con loro - anche con quelle che più si stanno dando da fare per non cedere e per non arrendersi - le speranze diventano sempre meno. Francamente sono convinta che loro non si arrenderanno facilmente ma lottare in quella situazione è veramente rischioso e difficile. Forse dovremmo lasciarle meno sole, forse dovremmo cercare di costruire delle reti per mantenere con loro almeno dei collegamenti, evitando che rimangano isolate anche dal resto del mondo oltre nel loro paese. Ho visto anche di recente un’amica che ha vissuto molti anni in Italia e che poi è tornata in Iraq perché non se la sentiva di star lontano dal suo paese in un momento così importante; anche lei mi diceva che è sempre più difficile resistere e vivere lì perché non c’è più una vita normale per una donna. La violenza quotidiana che c’è contro le donne ormai cresce sempre di più rispetto con il diffondersi di questo fondamentalismo che diventa sempre più pesante. Io ho scritto - nel libro o comunque in un articolo - che queste donne ormai si vedono scivolar via lungo i muri e che non hanno più neanche il coraggio di farsi vedere per strada perché sanno di rischiare. Per donne che erano abituate ad avere un proprio ruolo e una propria attività a tutti i livelli nella vita politica, sociale ed economica, è veramente un ritorno indietro di decenni ed è una cosa difficilmente accettabile; perché se è difficilmente accettabile per chi non ha mai avuto dei diritti, per chi ne ha potuto godere e poi non li ha più è ancora più difficile. Questo è veramente uno dei punti più dolenti della situazione irachena perché io penso che se si può usare un metro di misura per il livello di democratizzazione di un paese, esso lo si possa avere dai diritti di cui godono le donne, che peraltro sono la maggioranza della popolazione. In questo momento le donne sono private di ogni diritto, persino di quello della vita; non c’è più nessuna legalità e tornano a dominare la scena gruppi o milizie religiose che pongono le loro legge tribali che permettono di uccidere una donna se questa ha subito delle violenze, per lavare l’onore della famiglia. È vero che c’erano anche noi i delitti d’onore, però questo sta diventando la quotidianità ed è una cosa veramente insopportabile.

I mercenari. I mercenari sono il secondo esercito che c’è attualmente in Iraq. Si calcolano che siano tra i 30 mila e i 50 mila. Parlavo una sera con uno di loro che faceva parte di una società - sono molte le società che si organizzano in queste attività, sono anche quotate in borsa e fanno affari d’oro - e questo tizio mi diceva che stava partendo per la Nigeria ma che la sua società aveva molta gente in Iraq. Lui sosteneva che i mercenari presenti erano sicuramente trentamila. E sono quelli che svolgono i lavori più sporchi, quei lavori che gli eserciti non si possono permettere, perché se uno che fa parte di un esercito, almeno teoricamente, dovrebbe essere sottoposto ad alcune regole. Ma uno che fa parte di questi gruppi di mercenari non è sottoposto ad alcuna regola internazionale, a nessuna legislazione, né a quella irachena né a quella del suo paese né a quelle internazionali. Legislazioni che peraltro non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di una privatizzazione della guerra che impiega dei mercenari per combattere, per fare i lavori più sporchi come torture o interrogatori. Essi provengono da tutti i paesi, dai Balcani, dal Sudafrica, dall’America Latina, dall’Asia, dal Canada, dall’Australia e anche dall’ Italia. Uno degli elementi di questa guerra è stata anche la sua privatizzazione su larga scala perché mai come in Iraq si era vista una presenza di mercenari così forte, così organizzata e così fiorente per le imprese coinvolte. E naturalmente è fiorente anche per chi ci lavora, perché gli stipendi sono veramente alti. Tra l’altro un’agenzia che mi aveva mandato un amico – su cui però poi non si sono più trovate notizie da nessuna parte - diceva che c’era stato uno scontro tra i militari americani e alcuni mercenari. Gli Americani si lamentavano che alcuni lavori venivano affidati ai mercenari perché essi vengono pagati molto di più e per questo motivo c’era stato tra loro uno scontro violento.

Se non mi sbaglio, in quella trasmissione [Che tempo che fa condotta da Fabio Fazio] io ho detto che io non avevo perso la voglia di vivere ma che avevo perso l’entusiasmo di vivere. Da allora è passato un altro po’ di tempo: naturalmente non è che io abbia rinunciato a vivere per quello che mi è successo, però quell’entusiasmo che avevo prima non l’ho ancora ritrovato e non so se lo ritroverò. Questo traspare soprattutto dal fatto che non riesco a fare progetti, a fare programmi per la mia vita, ma che invece vivo alla giornata. Poi naturalmente alcune cose sono costretta a prevederle, perché se mi invitano per la settimana prossima negli Stati Uniti, non è che posso aspettare martedì prossimo ad organizzarmi! Devo per forza organizzarmi. Ma ogni volta che io mi metto ad organizzare, faccio una fatica e una violenza su me stessa. Poi la faccio perché la devo fare, perché devo superare queste situazioni e non posso arrendermi così . Ma anche adesso è ancora difficile cercare di pianificare la mia vita e di pensare al domani. Non so, sono cose che forse succedono quando ti trovi così vicina alla morte e quando ti tolgono la libertà, è come se ti privassero di una parte molto difficile da recuperare. Speriamo che io lo possa fare. Grazie per la domanda.

Penso che i miei rapinatori sarebbero oggi molto meno entusiasti del calcio italiano, dopo tutto quello che sta succedendo. O forse non si farebbero impressionare, visto che loro non guardano tanto per il sottile! Sicuramente avrebbero altri motivi per rimproverarmi di essere stata tifosa della Juventus! Nel frattempo, ho anche fatto molta autocritica e ho rinnegato la mia squadra. Comunque la Roma sembra essere messa un po’ meglio, Totti partecipa anche ai mondiali e loro staranno lì a guardare la televisione, essendo almeno uno dei due (l’altro non si pronunciava ) suo sostenitore. Quindi continuerà a seguire le sue peripezie. Comunque è vero, si pensa molto a come trasmettere dei messaggi in un mondo diverso dal nostro e poi i linguaggio globalizzante è forse quello del calcio, come si presupponeva. Questa sembra esserne una prova. Grazie.